mercoledì 30 gennaio 2008

Come fare le Mappe di Rischio

Premessa

Cosa sono le Mappe Grezze
Le “mappe grezze” sono la rappresentazione su carta delle mappe cognitive (o mentali) degli “esperti grezzi”, di soggetti, che di uno spazio dato (fabbrica, scuola, quartiere, ecc..) conoscono molte cose, come insieme eterogeneo che permette loro di controllare (nel senso di “governare”) quell’ambiente. La “mappa grezza” contiene le informazioni necessarie per realizzare un obiettivo; è definita grezza in quanto è sempre in lavorazione (è il contrario del "finito") e recupera l’esperienza dei soggetti che operano per il cambiamento. Descrive il contesto nel quale agire, fissa la situazione obiettivo da realizzare.

Perchè le Mappe Grezze
Le Mappe Grezze non sono in opposizione, tantomeno alternative alle "Mappe Tecniche", sono caso mai complementari a queste. Tutto ciò per garantire la necessaria integrazione tra il sapere dei tecnici e il sapere degli "esperti grezzi", condizione per avere dei progetti veri di cambiamento fondati sulla partecipazione e non delegati solo ai cosiddetti "professionisti".

Quali modelli teorici

Occorre ora affrontare alcuni modelli teorici:

  1. le Mappe Tecniche;
  2. le Mappe Cognitive;
  3. le Mappe Grezze;
Le Mappe Tecniche

  • Si tratta di rappresentazioni dell’ambiente attraverso le “rilevazioni” con strumenti tecnici (fisico – chimici);
  • L'ambiente è riprodotto in scala con un approccio unimodale;
Esempi:

  • carta geografica di un territorio;
  • piantina di una città;
  • impianti di lavorazione;
Le Mappe Cognitive

  • Sono immagini che ogni uomo possiede;
  • Si riferiscono alle rappresentazioni che ogni individuo si crea dell'ambiente;
  • Si tratta di rappresentazioni selettive, astratte e generalizzate;
  • Sono incomplete, distorte e aumentate;
  • Sono adeguate all'uso che gli uomini fanno dello spazio;
Le forme nelle quali gli uomini si rappresentano lo spazio possono essere molto diverse e variano per ogni individuo, come pure tra gruppi sociali diversi;

Le Mappe Grezze

Derivano dal confronto delle "mappe cognitive" di individui diversi. Si caratterizzano per tre elementi:

  1. Sono modalità per organizzare il proprio sapere in relazione a scopi precisi;
  2. Sono rappresentazioni comuni a più soggetti che permettono di evidenziare i punti salienti per leggere e controllare uno spazio dato;
  3. Sono rappresentazioni, messe su carta, derivanti dalle mappe mentali di più soggetti in grado di "dominare e/o governare" uno spazio dato - la mappa grezza è un artificio per recuperare l’esperienza che gli uomini fanno in un ambiente (reparto, fabbrica, quartiere, ecc..), gli obiettivi, i piani, i percorsi per determinare il cambiamento;
Lavoro di gruppo (3 o 4 allievi per gruppo)

  • Si prendono 5 tabelloni 70x100 più dei pennarelli per ogni gruppo;
  • Ci si mette su un tavolo;
  • Si sceglie una azienda conosciuta da almeno uno degli allievi, di un territorio dato: una ASL, un Comune, ecc.
  • Una ora e mezza di tempo per costruire i 5 tabelloni;
  • Quindi si appendono al muro e un allievo li illustra facendo finta di presentarli a dei lavoratori in assemblea;


CONTATTI

Per maggiori chiarimenti contattare l'Associazione Esperienza & Mappe Grezze - n° tel. 392.5872787 - e-mail marchetto.gianni@gmail.com

domenica 27 gennaio 2008

10 storie di vita

di Francesco Bruni

  • Il genogramma
  • L’ecomappa
  • Il gioco dell’oca
Premessa
La narrazione e il racconto di se sono “esercizi” sempre più diffusi che concorrono a dare un senso alla storia e alla rielaborazione dell’identità individuale e sociale.. Lo sguardo verso il passato aiuta a comprendere meglio le esigenze che ci attendono. Permettono di rielaborare quello che abbiamo fatto e ridare un senso alla nostra identità. Recuperare la memoria, ritornare alle radici sono condizioni importanti per affrontare il presente e pensare al futuro consapevoli dell’esperienza acquisita e delle risorse personali e sociali che possiamo utilizzare. Il racconto della proprio storia di vita può contribuire alla rielaborazione cognitiva dell’identità e alla socializzazione delle esperienze nella comunità di appartenenza. Dal confronto fra narrazioni diverse scaturisce un intreccio di tante storie personali come se fosse una storia comune dove si attivano livelli multipli di significato.

Obiettivi
Conoscere gli elementi significativi della storia dell’anziano ricoverato:
  • La famiglia in cui ha vissuto;
  • Il modo come ha organizzato la sua vita, tempo libero, relazioni sociali, ecc;
  • Il lavoro svolto;
  • I cambiamenti nella condizione di salute, malattie, perdite, lutti;
  • Le condizioni che hanno determinato il ricovero e le conseguenze;
Metodologia
Nel recuperare le storie di vita di dieci individui che vivono in case di cura e che si trovano in una fase delicata della vita e delle relazioni sociali, abbiamo pensato di utilizzare in maniera integrata tre strumenti che ci aiutano a ricostruire l’esperienza di vita, individuando i momenti cruciali che hanno segnato cambiamenti significativi e che ristrutturano il racconto della propria storia nei propri significati relazionali. Si vogliono evidenziare le difficoltà incontrate, ma anche il modo come sono state affrontate e possibilmente superate (servizi di cura, relazioni sociali, fattori di resilienza).

Nel recuperare la storia di vita si utilizzano tre strumenti integrati:
  • Il genogramma;
  • L’ecomappa;
  • La storia raccontata con il “gioco dell’oca”;

Il genogramma
è una specie di albero genealogico dove sono indicate famiglia di origine e i discendenti. In genere si rappresentano le ultime tre generazioni. Con il genogramma si traccia in maniera schematica la storia della famiglia.

L’ecomappa
evidenza i sistemi relazionali significativi, le risorse da utilizzare, le persone o i servizi da coinvolgere nella soluzione dei problemi o nel superamento delle condizioni di disagio.

Il gioco dell’oca

  • la storia raccontata con il gioco dell’oca è un artifizio narrativo per rilevare in riferimento a dieci eventi significativi della propria vita:
  • gli elementi cognitivi (sotto forma di racconto dei fatti accaduti);
  • le competenze acquisite (la descrizione del saper fare che ne è derivato e delle soluzioni trovate in riferimento ai problemi da risolvere);
  • le implicazioni emotive (attraverso l’uso delle carte del gioco dell’oca viene attribuito un simbolo ad ognuno dei dieci eventi).
Indicazioni operative
La storia di ogni individuo così articolata si recupera tramite due colloqui di 3 ore ciascuno.

Il primo incontro è dedicato alla costruzione del genogramma, alla elaborazione dell’ecomappa e alla definizione dei dieci eventi significativi della propria vita.
Nel secondo incontro (gioco dell’oca) si narrano i fatti relativi ai dieci eventi, si descrivono le competenze acquisite relative ad ogni periodo preso in esame, si attribuisce un significato emotivo ad ogni evento. Infine si procede al racconto sistemico della propria storia.

Il genogramma
Si utilizzano un quadrato per indicare le figure maschili e una circonferenza per quelle femminili. Con questi simboli si rappresenta l’albero genealogico delle ultime tre generazioni della famiglia.
Dei membri della famiglia che sono significativi si riportano nome e data di nascita, matrimonio, separazioni, morti e altri eventi importanti.
Nel genogramma viene precisata la percezione dei rapporti interpersonali e la propria posizione nel sistema familiare. Permette di raccogliere informazioni e avere una rappresentazione grafica e una mappa dei diversi piani generazionali. Permette di cogliere i nessi significativi nelle relazioni fra i diversi livelli generazionali.

L’ecomappa
Questo strumento è rivolto all’esame dello spazio vitale del nucleo familiare e ai rapporti di reciproca interdipendenza con le varie aree vitali dell’ambiente ecologico, in senso lato, circostante.
Prima di tutto si disegna sopra un foglio grande una “mappa in bianco” (vedi allegato) già strutturata. Dopo aver tracciato nel cerchio maggiore la composizione della famiglia (o del singolo anziano o dell’associazione di appartenenza), vengono visualizzati graficamente i reciproci rapporti di interdipendenza con l’ambiente ecologico. In particolare si descrivono i rapporti con alcune aree significative come ad esempio: famiglia estesa, attività professionale, servizi socio-sanitari, servizi assistenziali, tempo libero, amici, attività formative ecc.)
Le interazioni fra il sistema familiare e le specifiche aree, appartenenti all’ambiente ecologico circostante, saranno indicate con delle linee. Queste evidenziano la qualità dell’interazione (rapporti forti, deboli e conflittuali) e indicano la direzione del flusso di risorse, di energie e di interessi.
L’ecomappa è utilizzata come strumento valutativo per orientare l’intervento.

Il gioco dell’oca
Ogni individuo (ogni gruppo) ha una sua storia, o meglio tante storie. Ogni personaggio ne può raccontare una: storie allegre, tristi, interessanti, avventurose, brevi, lunghe, ecc.
La nostra identità è caratterizzata dalla storia in cui ci riconosciamo. Anche appartenere ad un gruppo significa condividere una storia comune che si intreccia con aspetti soggettivi. La storia può essere vista e raccontata in tanti modi a seconda di chi la narra.
Con il “gioco dell’oca” partiamo dalla storia dell’individuo o dalle tante storie del gruppo, ognuno ne porta una propria. In un primo momento gli eventi vengono descritti per definire le dieci tappe più importanti.
Le dieci tappe della storia comune dopo essere esplicitate e approfondite, vengono riportate su un cartellone sotto forma di percorso (come nel gioco dell’oca). Ad ogni tappa si attribuiscono significati emotivi utilizzando sette figure simboliche.

Alla fine si chiede all'intervistato di "tradurre" in fiaba la propria storia.

Formazione
Gli operatori delle Case di Riposo intervisteranno gli anziani secondo la metodologia sopra descritto. Dopo aver partecipato ad un corso di base di 10 ore sulla tecnica dell’intervista.
Nel corso di tutta l’attività si prevedono complessivamente 20 ore di formazione così distribuite:

10 ore di propedeutiche, alle interviste, suddivise in:
  • 3 moduli di 3 ore ciascuno sugli obiettivi della formazione e la metodologia (genogramma, ecomappa, gioco dell’oca), gli operatori si esercitano in aula;
  • Incontro di un’ora sulla programmazione e l’organizzazione delle interviste;
  • 4 incontri di 2 ore ciascuno di supervisione nel periodo in cui si effettuano le interviste;
  • Incontro conclusivo di 2 ore al termine delle interviste;

Le carte del gioco dell’oca e il loro significato

L’oca
elemento dinamico che permette di avanzare, superare i blocchi, saltare le tappe e progredire. Ma se avanza velocemente può saltare qualcosa di importante, senza che vi sia il tempo per assimilare e integrare quello che si fa.

La prigione
rappresenta la stagnazione, l’impossibilità di andare avanti. E’ un luogo dove vi trovate vostro malgrado, e dove bisogna aspettare che qualcuno vi liberi. Ma è anche un luogo dove si è protetti dai pericoli esterni. Può rappresentare un’occasione di approfondimento e conoscere meglio se stessi.

Il pozzo
corrisponde alla discesa senza fondo, all’abisso della disperazione, alla regressione. Ma questa discesa può rappresentare l’occasione di attingere l’acqua e rigenerarsi.

L’Hotel
è un’oasi di riposo; un posto di distensione, riflessione e recupero. Nello stesso tempo è un luogo dove ci si ferma e le cose non vanno avanti.

Il ponte
è un elemento di collegamento, permette di superare un ostacolo. Tuttavia comporta un prezzo da pagare, una sorta di pedaggio.

Il labirinto
è un luogo sconosciuto che si deve esplorare a proprio rischio. Non esiste un evidente soluzione e quella trovata sembra spesso spaventosa. Tuttavia se non si sprofonda nel panico si possono imparare a fare molte scelte obbligate e così scoprire l’inatteso. Nel labirinto si può imparare a conoscersi meglio e uscirne maturi.

La morte
è la fine definitiva di qualche cosa. Fine di una sofferenza penosa o di una esperienza gioiosa. Spesso un misto delle due. Ma la morte è strettamente e intimamente legata alla vita. Qualcosa deve sparire perché qualcosa possa apparire. Così la natura deve soccombere all’inverno e morire affinché la primavera possa arrivare con nuovi slanci.

sabato 26 gennaio 2008

Gastone Marri e Bruno Trentin: due protagonisti della lotta per la salute in fabbrica

di Diego Alhaique

Immaginate di lavorare in una fabbrica negli anni Sessanta. Alte temperature, forte umidità, poca ventilazione, rumore assordante.E poi gas, vapori, fumi, polveri, alte concentrazioni di sostanze tossiche. L’indice infortunistico era di 200 casi ogni mille lavoratori. Oggi è attorno a 40. I morti erano più di tremila. Quelli solo per infortunio. Quelli per malattia erano circa 800. Ma i risultati di quella nocività li stiamo raccogliendo ancora oggi. Come i morti per amianto: mille ogni anno.

Immaginate ora una sera d’inverno agli inizi del 1961, un treno che parte da Roma per Torino.
Sui sedili di legno viaggeranno tutta la notte un gruppo di sindacalisti della Cgil, tra cui Gastone Marri, Bruno Trentin, Angelo Di Gioia. Tranne quello di Trentin, nomi quasi tutti sconosciuti ai più, ma grandi e stimati dirigenti del movimento sindacale. Vanno a Settimo Torinese, ad un incontro con la Commissione interna della Farmitalia.

Gli operai hanno deciso di fare un’inchiesta in tutto lo stabilimento per documentare le condizioni di lavoro, non più sopportabili per la loro salute e proporre una piattaforma rivendicativa che elimini i fattori di nocività e d’infortunio.

Comincia qui, con l’inchiesta alla Farmitalia di Torino, la storia di una vera e propria “rivoluzione copernicana” con la quale gli operai e le loro organizzazioni posero al centro del sistema lavoro l’uomo che lavora (e la donna lavoratrice, naturalmente) e la loro salute, ribaltandone la subordinazione al processo produttivo, fino ad allora dominante.

Gastone Marri fu ispiratore e guida consapevole di quel movimento. Infatti, per essere stato dal 1974 al 1980 il Coordinatore del Crd, Centro ricerche e documentazione della Federazione Cgil-Cisl-Uil e, prima ancora, direttore della scuola di formazione dell’Inca a Grottaferrata e capo del servizio infortuni e prevenzione dello stesso Patronato, egli stesso riconosce, – in uno bilancio scritto nel 1980 - di aver avuto la maggiore responsabilità organizzativa in quel “lavoro di maglia” attraverso il quale, nell’arco di vent’anni, si costruì la rete di comunicazioni indispensabile alla socializzazione delle esperienze e delle conoscenze, che costituì il tessuto connettivo della “nuova comunità scientifica allargata”, quella che vide, appunto, nuclei sempre più numerosi di operai e lavoratori unirsi in un fecondo rapporto di confronto con i tecnici, elaborare un linguaggio comune per lottare contro la nocività dell’ambiente di lavoro e conquistare risultati concreti e diffusi di riduzione e di eliminazione dei rischi mai ottenuti prima di allora.

Uno dei meriti del movimento sindacale italiano degli anni Settanta fu quello di aver saputo associare, alle lotte sugli obiettivi salariali, rilevanti rivendicazioni di potere, proprio a cominciare dal controllo dell’ambiente di lavoro, con la conquista contrattuale di strumenti quali le “commissioni ambiente”, i registri dei dati ambientali e “biostatistici”, i libretti sanitari individuali e di rischio. Erano questi gli elementi fondanti di quella che abbiamo chiamato “rivoluzione copernicana” nella concezione della salute. Questa veniva posta al centro delle rivendicazioni sindacali, abbandonando la linea della sua “monetizzazione” (indennità di rischio e per nocività) – da cui lo slogan “la salute non si vende” – e perseguendo il principio del rifiuto da parte degli operai di delegare ai tecnici la propria salute, teorizzando il diretto intervento nell’individuazione dei rischi e “validazione consensuale” delle soluzioni di prevenzione da adottare. In ciò consisteva, in sintesi, la metodologia operaia, iniziata con l’inchiesta alla Farmitalia e che si diffuse ampiamente non solo nel nostro paese, ma col nome di “modello operaio italiano” ebbe fortuna anche in Spagna, in Brasile e in Argentina. La famosa dispensa a fumetti “L’Ambiente di lavoro” fu tradotta persino in Giapponese e utilizzata dai sindacati di quel paese.

I risultati si concretizzarono in un sensibile abbattimento del tasso infortunistico, nella bonifica dell’ambiente di lavoro in migliaia di aziende (ricordo per tutti il reparto Verniciatura della Fiat Mirafiori) e rilevanti conquiste contrattuali e legislative. Ricordiamo fra tutte lo Statuto dei diritti dei Lavoratori (art. 9: diritto dei lavoratori a partecipare tramite le loro rappresentanze all’individuazione delle misure di prevenzione in azienda) e l’istituzione del Sevizio sanitario nazionale, con i servizi territoriali per la tutela della salute nei luoghi di lavoro.

Essa rappresenta la summa del “sapere operaio” per la tutela della salute, ideata da Ivar Oddone - grande figura di medico e intellettuale che ha dato un grandissimo contributo alla nascita e allo sviluppo della cultura della prevenzione – ma frutto di un lavoro congiunto con operai, tecnici, sindacalisti della Camera del lavoro di Torino e della Fiom, e a cui contribuirono lo stesso Marri e Sandra Gloria, sua moglie, Roberto Tonini e altri ancora.

Marri arrivò nella capitale da Massa Lombarda (Ravenna) nei primi anni Cinquanta, dove era nato nel 1921. Giovanissimo aveva partecipato alla Resistenza. A Roma divenne subito dirigente del patronato Inca Cgil, ove operò a lungo, influenzando con le sue idee l’attività di tutela dei lavoratori e la politica di tutto il sindacato, introducendo la cultura della prevenzione e indicando le vie per un reciproco rafforzamento tra l’affermazione dei diritti previdenziali e quello alla salute dei lavoratori. Simbolo e strumento di quest’opera fu il Crd, Centro ricerche e documentazione sui rischi e danni da lavoro, costituito per iniziativa di Marri nel 1965, così come la rivista “Medicina dei Lavoratori”, fondata insieme a Rosario Bentivegna e Marcello Marroni, altri due medici che hanno dedicato la loro vita alla causa della salute dei lavoratori.

La pubblicazione di “Medicina dei Lavoratori” iniziò nel 1968 come supplemento di “L’Assistenza sociale” (periodico istituzionale dell’Inca fino a pochi anni fa), per poi proseguire come rivista unitaria sotto il nome di “Rassegna di Medicina dei Lavoratori”, che divenne testata autorevole in materia di salute dei lavoratori non solo nel sindacato ma anche nella comunità scientifica.

Anche il Crd divenne ben presto il centro propulsore e il punto di riferimento più seguito dell’evoluzione politica e culturale in materia di prevenzione e di tutela della salute nel lavoro per tutto il movimento sindacale. Il Centro operò poi come struttura della Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil con Marri direttore dal 1974 al 1980.

Marri rappresenta quindi la figura più prestigiosa che ideò e propugnò il modello sindacale per il controllo dell’ambiente di lavoro contro la nocività ma anche è il simbolo di tanti come lui che hanno lottato per migliorare le condizioni di lavoro nel nostro paese.

Ricordarne l’opera attraverso il premio giornalistico a lui dedicato significa riproporre oggi i valori di quel grande movimento di operai, lavoratori e sindacalisti, tecnici e medici, che dall’inizio degli anni Sessanta per circa un ventennio diede vita a quella “rivoluzione copernicana” nella concezione della salute nel lavoro.

Marri, in un’intervista nel 2002 per “Quaderni di Rassegna sindacale” ricorda – sono sue parole – “come Trentin conclude un suo bel libro (Il biennio rosso, Editori Riuniti) dicendo che bisogna ripartire dall’esperienza di quel periodo degli anni ’60 e ‘70, rivisitarlo e assumerne gli elementi nella nuova situazione di oggi. Sono molto d’accordo con lui e credo che alcuni spunti possano esser anche contenuti in tutta la ricca esperienza fatta in Italia sulla salute lavorativa, la cui vera storia è ancora da scrivere”.

Con il Premio Giornalistico Marri noi di Articolo 21 vogliamo contribuire a questo obiettivo. Vorrei ricordare a questo proposito l’epigrafe di Karl Marx, posta nella prima pagina del questionario che era stato indirizzato ai lavoratori più di un secolo e mezzo fa: “Il capitale non ha riguardo per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società”.

Come nacque e cosa rappresentò la dispensa "L'ambiente di lavoro"

Testimonianza di Ivar Oddone (1)

Mi è stato chiesto di riassumere che cosa fu l'esperienza che ha prodotto la dispensa "L'ambiente di lavoro". Da quale esigenza nasceva il movimento che l'ha originata e che cosa ne scaturì. Lo spazio che mi è concesso è estremamente limitato. Non parliamo del tempo per poter tradurre in parole quaranta anni di esperienza(2).

Posso dire che solo in Italia il movimento operaio ha saputo affrontare in modo gramsciano(3), cioè con un atteggiamento egemonico, il problema della nocività dell'ambiente di lavoro. Per egemonico intendo quello che allora si definiva "non delega" da parte dei lavoratori. Non limitarsi soltanto a denunciare le situazioni di rischio e a delegare chi "di dovere", ma prendersi in carico, nell'ambito delle regole, di contribuire a creare dei posti di lavoro che permettessero loro di non avere conseguenze sulla salute e, in prospettiva, di esprimere il massimo delle loro capacità produttive come esseri pensanti.

La dispensa ha richiesto un certo numero di anni, cinque come minimo. Passavo il mio tempo all'università, nella sezione universitaria dell'ospedale. Talora anche le feste. Al mattino e al pomeriggio (tutto o in parte). Mi guadagnavo da vivere con un'ora nell'ambulatorio della mutua dalle 19 alle 20, poi facevo le visite a domicilio, poi la cena, poi scrivevo. La Quinta Lega Mirafiori(4) era il mio terreno di ricerca. Era una "azione-ricerca" che non consideravo come una ricerca medica tradizionale, degna dì pubblicazione. Solo anni dopo, Federico Butera(5) seppe definire adeguatamente queste ricerche, definendole "irrituali". Non altrimenti l'insieme degli "uomini di Mirafiori" lavoravano come volontari nella Quinta Lega prima o dopo le tradizionali otto ore di lavoro in fabbrica.
Da quale esigenza nasceva? Dalle situazioni di nocività di fatto e ancora più dalla domanda di cambiare la situazione dei lavoro in senso ergonomico. L'Ergonomia, come approccio scientifico e come disciplina, nasceva in quegli anni in Europa ed in America. Il riferimento: "adattare il lavoro all'uomo". Il movimento sindacale italiano ha scritto nella storia un capitolo che nessun altro paese ha saputo scrivere in termini di lotta per adattare all'uomo che lavora il posto di lavoro. Norbert Wiener, il padre della cibernetica (la scienza che studia le informazioni ed il controllo delle informazioni negli animali e nelle macchine...la base della metodologia che governa le imprese spaziali), scriveva negli anni '60 (nella prefazione a Human use of human beings): "...l'organizzazione del lavoro attuale sa utilizzare solo un milionesimo delle capacità cerebrali dell'uomo... un giorno l'uomo si ergerà in tutta la sua statura...".

Io avevo delle conoscenze mediche, loro avevano delle conoscenze che permettevano di "indovare"(6) i rapporti tra la situazione produttiva e la situazione di salute. Lo scambio avveniva in molti modi. Il problema fondamentale che si pose allora: comunicare tra un medico e dei lavoratori a proposito della situazione di lavoro e delle malattie che ne potevano derivare. Qualcuno ha scritto (Winograd e Flores due informatici cileni coinvolti nella tragedia di Allende fuggiti allora negli Usa) che il linguaggio o è condiviso oppure l'interfaccia fra i due linguaggi impedisce la comunicazione. In questa situazione o si crea la consapevolezza del breakdown, cioè dell'esigenza di un linguaggio nuovo, oppure si usa il linguaggio precedente, annullando il problema e la possibilità di comunicare in modo efficace.

In altre parole abbiamo dovuto prendere atto che i problemi che avevamo di fronte non erano comprensibili né con il linguaggio medico, né con il linguaggio operaio sindacale allora attuali. Dovevamo costruirne uno nuovo che potesse servire come interfaccia fra la rappresentazione della condizione di lavoro da parte degli operai e la conoscenza della comunità scientifica medica, che astraeva dai posti di lavoro concreti, perché non li conosceva. Abbiamo dovuto inventare la tecnica delle "istruzioni al sosia". Si trattava di dare le istruzioni su quello si faceva rispondendo alla domanda: fa conto che io sia il tuo sosia ed immagina che io debba sostituirti nel tuo lavoro in modo che non ci si accorga che non sei tu". Su questa base preparavamo l’incontro del delegato sindacale con l'azienda simulando la situazione della trattativa. Il delegato rappresentava se stesso, io rappresentavo il medico di fabbrica, altri rappresentavano l’azienda, altri il sindacato. Abbiamo costruito così gli elementi essenziali della dispensa. Abbiamo cercato una soluzione grafica, rifiutando molte proposte per rappresentare "l’omino", accettando infine quella di un architetto. La montagna, in termini di prodotto, ha infine partorito... le 54 pagine della dispensa "L'ambiente di lavoro".

La dispensa è stata "testata" attraverso anni di formazione alla scuola sindacale di Ariccia. Che cosa è scaturito dall'uso di questa dispensa è rappresentato dal materiale del CRD (Centro Ricerche e Documentazione Rischi e Danni da Lavoro(7)), che rappresenta veramente la risposta a "che cosa ne scaturì". Questo materiale è, secondo me, ancora tutto da elaborare, soprattutto in funzione dell'utilizzazione che può esserne fatta per approntare degli strumenti che permettano ai giovani di utilizzare, nell'ambito delle loro esigenze, l'esperienza legata alle lotte per migliorare l'ambiente di lavoro in Italia.

Se in un prossimo futuro questo materiale fosse disponibile "on-line", ciò significherà continuare, ed in condizioni migliori, soprattutto per la presenza dei giovani, il lavoro di scambio tra lavoratori ed esperti dell'organizzazione del lavoro. Fra gli altri, i medici, non solo del lavoro ma anche di famiglia, "di base" come si suole dire adesso, gli unici che hanno la possibilità di considerare dal punto di vista medico l'uomo nella sua totalità e nella sua quotidianità.

(1) Medico, è stato il curatore della dispensa "L'Ambiente di Lavoro" e ha collaborato lungamente con i sindacati torinesi. Ha insegnato Psicologia del lavoro presso l'Università di Torino.

mercoledì 23 gennaio 2008

Sono figli nostri... i padroncini italiani!

Sarà un po’ una delle mie solite provocazioni (o sarà anche un po’ vero!), sta di fatto che la stragrande maggioranza dei “padroncini” italiani sono figli della classe operaia. Saranno pure un po’ “figli bastardi”, però sono figli nostri. Almeno la miriade di piccoli imprenditori che formano l’attuale struttura imprenditoriale del nostro paese, specie quelli che hanno aziende con meno di 15 o 20 addetti. Il caso più eclatante è quello derivante dalla struttura dell’impresa edile che per oltre il 95% non supera i 10 addetti.

Chi sono? in genere sono ex lavoratori con una buona professionalità, chi ex operai, impiegati o tecnici, figli ovviamente di operai, impiegati, tecnici. Il loro numero aumenta o diminuisce in occasione delle ricorrenti crisi economiche. In questa fascia di imprese vi è il maggior tasso di natalità e mortalità delle imprese (vedi i dati ISTAT). Occorre notare che è anche cospicuo il numero di “padroncini” che arrivano dalla sinistra del nostro paese.

In generale la molla che spinge verso il lavoro autonomo (impresa edile, artigiano, piccolo imprenditore per non dire ambulante, piccolo commercio, ecc.) deriva dal “tentarci” e dalle speranza di fare quattrini, sperabilmente in fretta. I primi tempi (immagino) sono molto intensi e stressanti. Una seconda molla è riferita al fatto che il “tentarci” è per uscire da condizioni di precarietà dovute dalla perdita di lavoro, o dalla perdurante condizione di precario in senso stretto.

La condizione negli ultimi anni è sotto pressione per gli effetti della “mondializzazione” in quanto la piccola impresa in Italia (salvo una minoranza) è parametrata su produzioni a basso valore aggiunto e quindi sottoposte alla concorrenza dei prodotti che vengono dai paesi dell’Est europeo o dai paesi asiatici.

Provo a indagare cosa può essere capitato nelle teste di milioni di persone in questi ultimi 10 o 15 anni. In questi ultimi anni è capitato che un contadino sia diventato operaio, che da operaio sia diventato piccolo imprenditore, che abbia dovuto fare i conti con una burocrazia oppressiva e inefficiente, che da piccolo imprenditore abbia dovuto imparare ad usare il computer, imparare una lingua per poter fare affari con paesi stranieri, che abbia dovuto fare i conti con la mia teoria delle TRE F.

Intanto occorre una premessa: quante aziende (e padroni ci sono in Italia)? io conosco quelle metalmeccaniche (dati INPS): sono 130.000 per 2.003.600 addetti, di cui 320.000 nel settore artigiano (ricordo che l'Italia è quella a maggior presenza di artigianato), settore per il quale in Francia esiste da parte dello stato un sovvenzionamento in quanto essere un settore ad alta qualificazione e a scarso mercato. Gli addetti medi sono 15,5 per impresa! a fronte di un dato francese che dice di 34 addetti medi per impresa e di uno tedesco che dice 48 addetti medi per impresa!

Ancora: come è la composizione di queste imprese? solo 2.700 imprese hanno più di 100 addetti, il rimanente sta al di sotto, con 100.000 di queste che stanno al di sotto dei 50 addetti (sono dati prima del 2000) - ora un'azienda di 50 addetti ha in media 15-20 impiegati - ricordo cha alla FIAT Mirafiori su circa 45.000 addetti gli ingegneri erano 64! e nel 1990 il 40% degli addetti alla carrozzeria di Rivalta aveva la 5 elementare!

La "teoria delle 3 F"

facciamo per ipotesi che io e te, stanchi di star sotto padrone, ci mettiamo in proprio, la prima cosa che ci domandiamo vicendevolmente è quanti soldi abbiamo in banca, per cui incontriamo qui la prima F che sta per capitale Familiare, ma nonostante il "rabastare" tutti i nostri risparmi dobbiamo per forza indebitarci con le banche le quali ci prestano i soldi ad un tasso di sconto maggiore di quanto lo facciano con la FIAT! e se non lo facciamo come facciamo a farci fare il capannone, a comperare le macchine, le materie prime, a pagare i primi stipendi e contributi? - controprova: prova a vedere negli annuari dell'AMMA e dell'API (trattasi della pubblicità dei padroni) il capitale sociale di queste imprese: sono tutte sottocapitalizzate (come giustamente dice Nesi), siamo in presenza di un capitale sociale con somme ridicole.

Dopo di che io e te siamo, tu un tecnico capace e io un operaio di mestiere, e ci mettiamo a fare degli stampi e delle attrezzature, con una cinquantina di dipendenti. Però nonostante tutta la nostra capacità professionale non ne capiamo niente di bilanci aziendali, di partita doppia, di decine di tasse da pagare, di amministrazione, ecc. per cui dobbiamo ricorrere verso uno strato di veri grassatori che sono i commercialisti e i fiscalisti i quali ci mangiano una bella fetta dei nostri profitti ma ci insegnano pure a non pagare il Fisco - e qui incontriamo appunto la seconda F come evasione dal Fisco.

Tra l'altro io e te (uomini di sinistra) pensavamo che il capitalista avesse una capacità di pianificazione di anni, invece (hainoi!) scopriamo che la pianificazione al massimo va verso i prossimi 6 mesi, e così occorre pensare per prima cosa a ricostruire il capitale familiare messo a disposizione dell'impresa, quindi farsi una villa (magari due!), una macchina lunga, e un eccetera molto lungo (se vuoi ti faccio l'elenco di tanti compagni finiti in questa spirale). Ancora: che mentre le banche si comportano nei nostri confronti come degli strozzini, la FIAT (per la quale lavoriamo) ci impone il 5x5 ogni anno (significa che dobbiamo fargli stampi e attrezzature con costi decrescenti) e ci paga fino a 180 giorni, mantenendo noi i magazzini che lei non vuole più avere in omaggio al just-in-time!

Ad un certo punto della nostra attività per stare nei costi e per guadagnarci scopriamo che c'è chi è in grado di farci tutta una serie di lavoretti che ci costano un casino e valgono poco, e così li "esternalizziamo" verso aziendine di una decina di dipendenti, scoprendo così la terza F = Fornitori - così facendo incentiviamo il lavoro sottopagato, in nero, ecc.

Ma quali soldi (una volta arricchiti) avranno mai queste aziende per fare innovazione, formazione per se stessi e per i lavoratori, per fare sicurezza?? Nota bene che i dati INAIL ci dicono che tra gli infortuni (anche quelli gravi e le morti) ben il 40% ca. investono appunto i “padroncini”.

In questi ultimi anni questa teoria si è arricchita di una 4 F che sta per Fallimento - vedi a questo proposito la vicenda della Mandelli o delle Acc. Ferrero che hanno chiuso fallendo, mettendo sul lastrico centinaia di famiglie e disperdendo una capacità professionale robusta. Ora dalle mie letture giovanili ricordo una serie di romanzi della fine ottocento o primi del novecento che raccontavano che il fallito andasse in giro con le "pezze al culo". Ma Mandelli secondo te è con le pezze al culo o pieno di soldi come un uovo?? ora io penso che a queste losche manovre occorrerebbe applicare la legge sulla mafia che requisisce i patrimoni dei mafiosi (e dei falliti!).

E il tutto alla fine sull'altare della vera filosofia del padronato italiano = "farsi ricchi in fretta" (come dice giustamente Volponi nel bel libro "Il Leone e la Volpe" Ed. Einaudi).

E bada bene che facendo questa simulazione ho messo in campo due persone provviste di qualificazione, di capacità, prova solo a pensare cosa accade tutti i giorni nel piccolo commercio, dove un anno fai il pizzaiolo, un anno gestisci un bar, un anno gestisci una jenseria, ecc.: con quale preparazione e formazione?

Un processo quindi di accumulo di esperienza enorme, che solo qualche decennio fa avveniva per la maggior parte delle persone nell'arco di tutta la vita se non di due generazioni. Esperienza che non ha incontrato la "cultura" non solo quella scolastica, ma neanche quella orale, quella legata alle varie associazioni, categorie, partiti, sindacati, ecc.. in un vuoto assoluto insomma.

Ma nella maggioranza di che persone si tratta? Si tratta appunto di persone con una buona professionalità, ma sostanzialmente dei “caproni”. Non sanno nulla né del Diritto del Lavoro in Italia, né della Legislazione alla Salute e Sicurezza. Occorrerebbe quanto meno prima della sua “intrapresa” fargli fare un breve corso di formazione ed un relativo esame per poter fare l’imprenditore. Perché a differenza di un barista (il quale per aprire un Bar deve sostenere un esame) il nostro per fare l’imprenditore edile o altro basta che vada ad iscriversi alla Camera di Commercio. In pratica abbiamo per le strade "degli autisti senza la patente!"

La realtà nel sindacato e nei partiti

Buona parte del "vuoto assoluto" in cui è avvenuto questo accumulo di esperienza è derivato dalla fine di un ruolo "pedagogico" di massa esercitato dai grandi partiti di massa (PCI e DC), dal Craxismo e dalla lenta e progressiva emarginazione e burocratizzazione dei sindacati nelle fabbriche e nella società, e questo bada bene, nel Nord industrializzato!

C’è una citazione di un grande Socialista francese che negli anni ’30 diceva: “la classe operaia essendo figlia della borghesia che la comanda, le somiglia!”. Credo che avesse abbondantemente ragione. Negli ultimi anni della mia attività da sindacalista ho avuto a che fare con circa un migliaio Delegati, della FIOM e di altre categorie non solo in Piemonte ma anche nel resto d'Italia, per via dei miei compiti di formatore (sulla 626), li mettevo insieme a blocchi di 20 per 2 giorni consecutivi. La formazione è sempre un ottimo luogo di osservazione della psicologia degli individui. In Piemonte la FIOM negli ultimi 4-5 anni tra gli iscritti persi e quelli nuovi ha rinnovato per ben il 50-70% la base dei propri iscritti, dal che ne deriva un sostanziale rinnovamento del quadro medio militante. Cosa mi sono trovato di fronte:
  • lavoratori che si danno del lei, che si chiamano tra di loro "colleghi", che non usano più la parola "padrone" diventata una brutta parola, ma datore di lavoro, collaborativi;
  • lavoratori tra l'altro molto più ricettivi di quanto lo ero io alla loro età, molto più sereni di me, comunque gente dalla schiena dritta.

Ma assolutamente "ignoranti" nel senso di ignorare ogni e qualsiasi cosa della storia, delle lotte dei lavoratori; alle mie domande:

  1. datemi una definizione di stato sociale;
  2. quanto pagate in busta paga per lo stato sociale;
  3. quanto paga il padrone (in termini di "salario differito", cosa anche questa del tutto sconosciuta);
  4. cosa avete in cambio dallo stato;
avevo risposte le più vaghe possibili e le meno pertinenti.

Prime conclusioni

Delle due l’una: o si ha una strategia che mira in tempi sufficientemente brevi di ridurre drasticamente il numero di questi “padroncini” o bisogna farci i conti con questa realtà … che va educata!

E io conosco solo due modi di fare “scuola”: la più tradizionale possibile (andare a scuola) e la lotta di classe. Per me non sono in alternativa. Occorre che uno stato degno di questo nome si accolli l’onere di “istruire, educare alle regole del gioco” i propri cittadini e specie quelli che “intraprendono” per gli ovvi motivi di ordine sociale che intervengono nell’intraprendere e la classe operaia (in senso stretto) che in piena autonomia deve “legnare” tutti quei farabutti che per “farsi i soldi in fretta” li fanno morire e infortunare.

Senza dimenticare i “PADRONI”, quelli che magari in questi ultimi anni hanno ristrutturato le loro aziende, rendendole salubri e alcune volte persino gradevoli, ma che hanno la responsabilità di aver “esternalizzato” le produzioni più “sgalfe” nelle aziendine dei “padroncini” fino a finire nell'economia sommersa o malavitosa della camorra. Vedi il bel libro "Gomorra" di Roberto Saviano.

domenica 20 gennaio 2008

Promozione della salute dei lavoratori

A Giugno del 2007 a Torino, promossa dal Ministero della Salute e da quello del Lavoro si è tenuta la 1° Conferenza Nazionale su Salute e Sicurezza.
Ha colpito (in maniera del tutto positiva) come fatto mediatico, la dolorosa testimonianza di 10 casi di lavoratori danneggiati.È mia opinione che importanti contributi e interventi si siano quasi tutti fermati sulla soglia delle proposte di intervento concreto. Che infatti non ci sono state. Salvo importanti contributi rispetto alla modifica di normative (vedi ad es. sul testo unico);

I costi di mancata salute

La situazione al 1966

  • 4 morti al giorno;
  • 876.000 infortuni all’anno;
  • 8.800 ca. malattie professionali;
  • Costo in mancata salute = 55mila miliardi di Lire;

La situazione al 2006

  • 4 morti al giorno;
  • 916.000 infortuni all’anno;
  • 24.000 ca. malattie professionali;
  • Costo in mancata salute 41 miliardi di € (ca. 80mila miliardi di Lire);

Occorre sapere che l’80% degli infortuni avviene nelle imprese con meno di 15 addetti (fonte INAIL). In queste imprese il Documento di Valutazione dei Rischi (previsto dalla 626) è redatto in proprio dal datore di lavoro. La presenza dei Sindacati in queste imprese in pratica è pressoché nulla, quindi manca il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza.

Per il lavoro da me svolto in anni e anni di attività sindacale su questi problemi se potessi farei i seguenti suggerimenti e proposte:

La patente ai padroni
Chi è l’imprenditore: in genere è un ex lavoratore con una buona professionalità, ma che a differenza di un barista (il quale per aprire un Bar deve sostenere un esame) il nostro per fare l’imprenditore edile o altro basta che vada ad iscriversi alla Camera di Commercio. Il nostro ha chiaro un obiettivo: farsi ricco in fretta (almeno questa è la sua chiara aspirazione). Non sa nulla né del Diritto del Lavoro in Italia, né della Legislazione alla Salute e Sicurezza. Occorrerebbe quanto meno prima della sua “intrapresa” fargli fare un breve corso di formazione ed un relativo esame per poter fare l’imprenditore.

La catena del sub-appalto
rompere la catena del sub-appalto e delle esternalizzazioni a partire da due categorie: gli EDILI e le IMPRESE DI PULIZIA – aumentare i controlli – inasprire le pene – aumentare il potere di controllo e di contrattazione dei lavoratori.

Dei premi e delle pene

  • occorre andare ad una diversificazione robusta delle pene e dei premi per gli imprenditori, es.:
  • occorre verificare la possibilità giuridica dell’interdizione (per n° anni o per sempre) alla professione di imprenditore per coloro i quali per mancata e manifesta protezione dei lavoratori sono causa di morte per i lavoratori stessi;
  • occorre andare ad una diversificazione dei premi assicurativi molto più robusta degli attuali “bonus – malus”: chi spende per la prevenzione (che altro non è che spendere per l’innovazione) e la formazione va premiato, chi non spende va punito;
  • l’INAIL deve sempre garantirsi una sorta di “rivalsa” nei confronti di quelle aziende che “sapevano e non si sono adeguate”;

I punti per gli appalti

  • così come valgono i “punti di penalità” per le infrazioni che commettono gli autisti a bordo delle loro automobili, occorre precisare quali “punti di penalità” occorre introdurre per quelle imprese (specie per quelle che lavorano in appalto, ma non solo) in occasione delle gare di appalto, specie per le gare di opere pubbliche;
  • in pratica chi per manifesta responsabilità è stato causa di infortuni (e malattie professionali), “aspetta un giro” o non entra in gara;

Le gare di appalto

  • Basta leggere il settimanale del “Sole 24ore”, Edilizia & Territorio per rendersi conto che il meccanismo della gare di appalto fa acqua. Non è possibile accettare dei ribassi che vanno dal 10% fino al 61%!. Delle due l’una, o sbaglia che fa i preventivi o chi fa di queste offerte… trucca! Con questi ribassi ci sono gli infortuni annunciati.
  • La legislazione degli appalti va rivista, nelle percentuali del subappalto, nell’aggiudicazione dei lavori all’offerta più vantaggiosa anziché al minimo ribasso, nelle esecuzioni dei lavori sotto la soglia da parte di consorzi o società multiservizi.

Ruolo dell’ISPELS

  • A livello di ISPELS va potenziato attraverso un sorta di “obbligo” alle ASL e ai loro ispettori, la banca dati delle soluzioni: all’onore del mondo quelle aziende, quegli imprenditori, quei tecnici che pur facendo profitto, fanno prevenzione e tutela della salute dei loro lavoratori;
  • Tale banca dati occorre che sia conosciuta dalle Aziende così come dai RLS e dai lavoratori: "lavoro in una carpenteria, voglio sapere se in Italia c’è una carpenteria che abbia bonificato l’ambiente di lavoro e tutelato la salute dei lavoratori".

La 1° proposta: Promozione della salute dei lavoratori

La situazione attuale

  • È caratterizzata dai molti limiti nella applicazione della 626: il tutto si è rilevato una montagna di carta: molta protezione poca prevenzione, di difficile comprensione da parte persino del RLS, per non dire del mancato coinvolgimento dei lavoratori interessati;
  • Deriva dal progressivo passaggio dalle malattie specifiche, dove esiste un chiaro “nesso causale” (es. rumore: sordità) alle malattie aspecifiche dove il nesso causale è più improprio (es. i traumi da sforzi ripetuti: le “tendiniti”) e dal contemporaneo comportamento dell’INAIL che da una parte non riconosce tali malattie e quando lo fa non le indennizza.
  • Occorre inoltre interessare il medico di base sulle 8 ore che un lavoratore passa in un luogo di lavoro, esposto a una serie di rischi. Tale medico di base non sa quasi nulla di queste 8 ore e riconduce tutto ai cosiddetti “stili di vita”, mentre fa parte delle sue competenze l’accertamento e la denuncia all’INAIL delle malattie professionali riscontrate tra i suoi pazienti.

La situazione attesa

  • Ciascun lavoratore ha diritto di ricevere una informazione adeguata in termini di prevenzione e protezione; ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. 626/94, essa deve essere resa in forma agevolmente comprensibile.
  • Affinché il lavoratore possa concretamente esercitare il suo diritto all’informazione e alla formazione, è necessario rendere il Documento di valutazione del rischio, sintetico, comprensibile e di facile consultazione da parte del lavoratore;
  • Ogni lavoratore, nella propria unità produttiva, deve poter accedere e consultare a mezzo di un PC la “sintesi del Documento di valutazione del rischio”, che sarà opportunamente installata sul PC stesso, con possibilità di stampare le parti che lo interessano;
    In assenza dei PC le informazioni devono essere messe a vista: con dei tabelloni e poter essere fornite ai lavoratori su supporto cartaceo;

La tabella del posto/i di lavoro (dati da mettere in un data base)

  • Determinanti del rischio (le fonti e i fattori di rischio)
  • Rischi di…
  • Intensità del rischio e n° esposti
  • Organi colpiti
  • Mezzi protettivi (elenco DPI messi a disposizione
  • Programma delle misure di prevenzione (il cronoprogramma)
  • Rischi esterni

Alla Regione Piemonte si potrebbe chiedere di fare da “sponsor” per assumere il suddetto progetto almeno in una serie di realtà produttive e di servizi di aziende “pubbliche”, quali:

  1. presso la GTT di Torino e precisamente nelle Officine di manutenzione dei veicoli pubblici;
  2. tra il Corpo dei Vigili Urbani del Comune di Torino;
  3. all’AMIAT di Torino;
  4. in un Ospedale di Torino;
la 2° proposta: Il Tabellone Comunale di Rischio
La situazione attuale

  • La situazione attuale è caratterizzata da una serie di Enti e/o agenzie che hanno tantissime informazioni (dalle ASL, all’INAIL, al DORS, ecc.) ma, pochissimi piani di intervento. Peccato che la cronica carenza di personale ispettivo delle ASL (sono 174 su 225 che teoricamente spetterebbe pari a meno 22,6%) sommata alle attività di routine degli Ispettori ASL lasci tutto alle buone intenzioni).
  • A livello di Promozione della Salute c’è un episodico intervento, attraverso convegni e/o assemblee più o meno mirate, che riguarda però gli “addetti ai lavori” – manca del tutto un riferimento ai cittadini e agli Enti Locali (per tutti valgano i Sindaci dei comuni, che hanno però parecchie prerogative in materia di salvaguardia della salute dei cittadini: vedi le isole pedonali, i sensi unici, le attività ispettive in materia di igiene alimentare, il blocco della circolazione delle auto private in determinate occasioni, ecc., però pochissime sono le esperienze in materia di prevenzione e promozione della salute nei luoghi di lavoro);
La situazione attesa
La proposta potrebbe essere la seguente: in alcune ASL avere una serie di Comuni del Piemonte dove si sperimenta la produzione dei Tabelloni Comunali di Rischio con i seguenti obiettivi:
  1. monitorare i rischi alla salute e l’andamento dei lavoratori esposti e danneggiati, del territorio comunale a partire dai rischi più gravi, più frequenti e/o diffusi presenti nei luoghi di lavoro del comune;
  2. per questa via approntare e verificare i piani di intervento dei diversi enti e/o agenzie che operano sul territorio, sui quali fare i necessari bilanci di attività annuali;
  3. imboccare un percorso che porti il singolo cittadino ad avere coscienza (attraverso la conoscenza) dei rischi alla salute che interessano i lavoratori che lavorano nel proprio comune;
  4. non lasciare solo il singolo lavoratore danneggiato da infortunio e/o malattia professionale: offrire tutto l’aiuto possibile da parte di Enti e/o agenzie preposte (ASL, Medici, Patronati, ecc.);
  5. una volta l’anno mettere a confronto il Sindaco, i Sindacati e i Datori di lavoro per avere una discussione proficua mirata alla riduzione dei rischi e al miglioramento della salute dei cittadini/lavoratori del territorio comunale.
prima ipotesi di Tabellone (e di relativo archivio informatizzato) che dovrà essere esposto in tutti i locali pubblici.

Tabellone di Rischio a livello Comunale

In Piemonte nel 2006

  • 74.023 infortuni di cui 109 mortali
  • 48.018 con invalidità temporanea
  • 1.819 con invalidità permanente

    Gli infortuni e le malattie professionali in Italia costano 41 miliardi di Euro l'anno. Combattere gli infortuni e le malattie professionali (di cui i morti sono 4 volte di più di quelli per infortunio - vedi dati dell'ILO) è un imperativo etico ma anche ineludibile sotto il profilo economico.

sabato 19 gennaio 2008

Cambiare strategia - La soggettività operaia e le mappe di rischio

Nonostante che i segretari generali del sindacato italiano siano ospiti abituali dei talk-shaw televisivi la quotidianità della vita dei lavoratori è conosciuta solamente per i bassi salari e l’instabilità dell’occupazione. La vita sul lavoro è diventata «invisibile» e contano meno di un tempo pur essendo molti milioni ed una buona parte con tessera sindacale: oltre cinque milioni gli iscritti ai tre principali sindacati confederali.
Solo la morte sul lavoro, se spettacolare, pare possa renderli «visibili» riproponendo i problemi dell’organizzazione e della sicurezza del lavoro, dell’integrità psico-fisica e della dignità del lavoratore. Così fu vent’anni fa, nel 1987, con il più grave incidente sul lavoro avvenuto in Italia, quello della Mecnavi quando 13 lavoratori della manutenzione morirono soffocati nella stiva della Elisabetta Montanari, nel porto di Ravenna. Così è stato in queste settimane a Torino per le sette vittime alla ThyssenKrupp. Allora seguì una lunga inchiesta parlamentare che non cambiò le cose, questa volta cosa sarà?
A Torino i riflettori si sono accesi a ripetizione sia per ricostruire scenari da “Apocalisse now”, spettacolari per quanto tragici, sia per seguire il giallo delle accuse e delle smentite della multinazionale tedesca. Non così era stato l’anno scorso per le cinque vittime causate dall’esplosione alla “Molino Cordero” di Fossano.
Non abbiamo compreso, ne condiviso, quei titoli che definivano martiri gli operai della Thyssen che invece sono stati uccisi per gravi negligenze e superficialità organizzative della Direzione Aziendale Torinese e della multinazionale bavarese. Ne comprendiamo perché in un rito funebre il cordoglio e l’emozione debbano esprimersi in applausi al passaggio delle bare quando più consono si addice il silenzio prolungato per manifestare la profondità di un saluto collettivo a chi è stata strappata la vita.

A distanza dai tragici fatti il Segretario Generale della Cgil Guglielmo Epifani, a metà gennaio su «La Repubblica», ha dichiarato che “ogni morto sul lavoro è una sconfitta per il sindacato… che c'è anche una nostra quota di responsabilità, accanto alla mancanza di controlli e alle colpe delle imprese che spesso non si curano della sicurezza in nome del profitto”, sollecitando «un’autoriforma» del sindacato per ritornare ad essere ben presente sui problemi interni delle fabbriche, condizione fondamentale per perseguire più sicurezza. Non possiamo dimenticarci che il sindacato in fabbrica c’è disponendo di non pochi iscritti e di piccolo esercito di RSU e RSL (parecchie migliaia) che dispongono di un monte ore retribuito, come pure lo sono le ore annue di assemblee per tutti i lavoratori. Anziché prospettare vaghe autoriforme servirebbe una rapida inchiesta delle Confederazioni per verificare quale sia la quantità e la qualità dell’informazione e della formazione trasmessa ai RSL, ARSLT ed ai lavoratori in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Ovvero quale modello d’intervento è stato proposto e con quale efficacia.
Probabilmente si accerterebbe che le iniziative sono limitate e scarsa la conoscenza dell’organizzazione di lavoro senza la quale non si può costruire una mappa dei rischi collettivi sui quali pone attenzione primaria proprio la legge 626 che privilegia gli interventi di prevenzione collettiva per ridurre il rischio infortunistico, per contenere la diffusione di inquinanti nell’ambiente di lavoro. Serve pertanto formare una coscienza collettiva per gruppi di lavorazione omogenee, anche per esigere dai lavoratori il rispetto delle protezioni individuali che per essere sopportate a volte richiedono una modifica dei carichi di lavoro. La vigilanza operaia si attiva con quella soggettività operaia, collettiva, in grado di esprimere valutazioni sulla propria prestazione di lavoro, nel contempo essere sensori per indirizzare l’intervento del sindacato di fabbrica e territoriale. Quella coscienza si costruisce gradino per gradino, più con piccole assemblee anziché grandi comizi, ponendo propedeuticamente dubbi sistematici per approfondire l’argomento, con carta e penna per annotare. Così si fece nei primi anni 70, quando nelle officine si distribuivano i questionari, gli opuscoli con «omini» ed i colori dei fattori di rischio. Poi il sindacato tralasciò quel metodo e le mappe di rischio, affidandosi al ruolo dei medici interni e degli ispettori delle nuove strutture previste, nel 1978, con l’avvento del Servizio Sanitario Nazionale ed in seguito con l’istituzione degli enti bilaterali.

Gli organismi bilaterali per le piccole e medie aziende torinesi

All’Associazione Piccole e Medie Imprese (API) aderiscono, nella provincia torinese, 2700 aziende con circa 45.000 addetti; sono oltre 4.000 aziende con circa 85.000 addetti nella regione. Oltre il 50% sono aziende con meno di 15 addetti, dove in genere non c’è il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS). Il Segretario Generale dell’Api Torinese Roberto Degioanni informa che «L’Organismo Paritetico Territoriale (OPT) e quello regionale (OPR) si riuniscono mediamente 7-8 volte all’anno per definire programmi formativi da presentare all’Inail, finora non hanno affrontato altre tematiche come ad esempio casi di vertenzialità sulla sicurezza non risolti in azienda».
L’attività formativa per il 2008 prevede sei corsi - finanziati dall’Inail con 366.000 € - che trattano: dei disturbi muscolari, della formazione per RLS e RLST, del regolamento europeo Reach, dell’azione formativa per esperti del Sistema Gestione Sicurezza lavoro (SGSL), delle iniziative per promuovere una banca dati regionale per RSL/RSLT. Saranno interessati 250 RLS e 480 RSPP, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dei rischi scelto dall’Azienda, suddividendoli in corsi con 12-15 partecipanti utilizzando le 32 ore previste dalla legge 626.

Gli organismi bilaterali per l’artigianato

L’Ente Bilaterale per l’Artigianato Piemontese (EBAP), costituito nel 1993, gestisce Fondi per il sostegno al reddito dei dipendenti, per la formazione professionale, per la previdenza complementare, per la mutualizzazione dei contributi sindacali per l’attività di delegati di bacino, per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Le aziende artigiane registrate in Piemonte sono 125.000, con circa 330.000 addetti, comprendendo l’industria e l’edilizia, con relative aziende uninominali e famigliari. Le aziende «sindacalizzabili» all’EBAP sono 26.000; attualmente sono 13.000 quelle iscritte ma al Fondo per la sicurezza sul lavoro aderiscono solo 6.500 aziende. Aldo Celestino, rappresentante della Cisl nell’Ente, sintetizza così l’attività informativa per la sicurezza sul lavoro: «nel 1997 sono stati stampati 90.000 “Quaderni di sicurezza” sulla legge 626, a cui sono seguiti sedici quaderni per settori, tra i quali quello per le “Carrozzerie in 10.000 copie”. Per l’attività formativa dei Rappresentanti dei Lavoratori della Sicurezza Territoriale (RLST) ricorda «che è stato attuato un programma di formazione di 13 moduli per un totale di 160 ore di studio». Gli RLST regionali sono 27 ripartiti pariteticamente tra Cigl, Cisl e Uil: ognuno usufruisce di un monte ore retribuito pari al part-time, il sindacato li utilizza come operatori a pieno tempo per l’attività ordinaria lasciando solo briciole per la specificità dell’artigianato. «Sono anomalie a cui bisogna rimediare al più presto -sottolinea Celestino- così pure alla mancanza di formazione per i lavoratori; a livello nazionale, si stima che il 40% delle aziende sarebbero a rischio ma solamente il 6% dei lavoratori avrebbe partecipato ad attività formativa».

Gli organismi bilaterali per l’industria

Gli organismo bilaterali per le aziende che aderiscono all’Unione Industriale risultano i meno operativi, da circa due anni non sono neppure più convocati e questo torpore non sembrerebbe scosso neppure dopo la tragedia ThyssenKrupp. La diversità interpretative sulla legge 626 risulterebbe talmente radicata da indurre alla rinuncia di ulteriori confronti per costituire un’anagrafe comune, per definire un modello d’intervento per il RSL. Doriano Ravarino, responsabile per la Fiom-Cgil per l’ambiente e la sicurezza sul lavoro, rivela cose che lasciano increduli: «le aziende non consentono -tranne lodevoli eccezioni- neppure il diritto alle Rsu ed ai RSL di accedere ad internet e alla posta elettronica….». Prosegue con: «Finora al RSL non veniva consegnato il piano di sicurezza aziendale, nella maggioranza dei casi gli veniva illustrato, consentendo la visione - se richiesta - in seduta stante avvertendo che si trattava di segreto d’ufficio..». Ravarino prosegue descrivendo una serie di accorgimenti operativi con i quali le aziende «hanno sterilizzato la 626 escludendo dalla ricerca e dall’operatività gli RLS, ciò potrebbe proseguire anche dopo i chiarimenti del dlg 123/07».

Riprende l’iniziativa sindacale

Nella seconda metà del 2007 i sindacati torinesi, unitariamente e con iniziative di organizzazione, hanno dato un primo scossone all’immobilismo di questi anni, ben utilizzando le precisazioni della legge delega 123/agosto 2007 che dovrebbe consentire l’approvazione del lungamente atteso Testo Unico per la normativa sulla prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Ad ottobre 2007 la Cgil-Cisl-Uil regionali hanno presentato all’Assessorato alla Sanità un documento articolato in otto punti sul tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, tra i quali spicca la richiesta di destinare per i luoghi di lavoro almeno il 2% ( anziché il misero attuale 0,3%) del 5% del bilancio della sanità ( ovvero la quota del badget destinato alla voce prevenzione).
Nel 2007 la Cisl Regionale ha portato a termine un corso, di sei moduli, finanziato dall’Inail, per 30 formatori da utilizzare per un ampio programma di formazione ai RSL di cui ha costituito un’anagrafe.. A novembre la Cisl Regionale ha convocato, a Torino, una prima assemblea di RSL e RSTL con ottima riuscita ed i 350 RSL che gremivano la sala hanno «invocato» più informazione e più iniziative formative.
Nel 2007 la Fiom Torinese ha realizzato l’anagrafe dei propri RSL che contiene 300 nominativi di aziende e di Rsl. Inoltre, unitamente alla categoria dei chimici, ha definito - con il finanziamento dell’Inail, un piano di formazione che è iniziato nell’ottobre 2007 e si concluderà nel 2008. E’ costituito da quattro moduli per ognuno dei quali parteciperanno 14 RSL. Ogni modulo è di 32 ore ed è suddiviso in quattro lezioni articolate nell’arco di due mesi. I 96 RSL che termineranno con profitto tale corso saranno anche abilitati all’utilizzo di un data base su dischetto contenente il modello d’intervento e di registrazione dell’attività in azienda.
E’ auspicabile che riprenda, dopo quella delle singole organizzazioni, anche una programmata iniziativa unitaria dei sindacati, solo così si potrebbe superare definitivamente la lunga pausa di questi anni. Cambiare strategia implica anche entrare in rotta di collisione con il regime degli straordinari e le norme della loro detassazione che ne incentiva l’utilizzo, contestualmente proponendo la salvaguardia del potere d’acquisto dei salari con il pieno recupero dell’inflazione reale. Infine pretendendo che il Governo ed il Parlamento s’impegnino ha non più varare norme che depenalizzano i reati, che estinguono le pene (indulto e decreto mille deroghe di fine anno) relativi agli incidenti gravi sul lavoro e per il lavoro nero.

Gianni Marchetto ed Adriano Serafino


CANZONE
del sindacalista di opinione


competenze, competenze...
son quisquilie oppur scemenze,
deleghiamole ai borghesi,
che gestiscono il potere.
Le opinioni, le opinioni,
queste sì son cose vere :
ci si va in televisioni,
se ne parla per dei mesi.
Cosa dici? il saper fare?
lo lasciamo agli operai,
noi dobbiamo elaborare,
altrimenti sono guai.

Un amico

domenica 6 gennaio 2008

I prodotti della Associazione Esperienza & Mappe Grezze

Premessa

la sede dell'associazione è a Torino in Via Sant'Agostino 20 c/o il CIPES Piemonte, il n° del telefono è 392.5872787, i prodotti dell'associazione sono i seguenti:

  • Mappari su diversi argomenti
  • Formazione
  • Consulenza
LE MAPPE GREZZE
Le “mappe grezze” sono la rappresentazione su carta delle mappe cognitive (o mentali) degli “esperti grezzi”, di soggetti, che di uno spazio dato (fabbrica, scuola, quartiere, ecc..) conoscono molte cose, come insieme eterogeneo che permette loro di controllare (nel senso di “governare”) quell’ambiente. La “mappa grezza” contiene le informazioni necessarie per realizzare un obiettivo; è definita grezza in quanto è sempre in lavorazione (è il contrario del "finito") e recupera l’esperienza dei soggetti che operano per il cambiamento. Descrive il contesto nel quale agire, fissa la situazione obiettivo da realizzare.

Obiettivi della Associazione

Produzione di progetti per:

  • Enti Locali (comuni, circoscrizioni, consorzi);
  • ASL (operatori, ispettori);
  • Scuole (allievi, insegnati e personale non docente);
  • Sindacati (RSU, RLS e lavoratori);
  • Aziende (servizi per il personale, RSPP, Medici compententi);
Consulenza: a tutti i soggetti sopraelencati;
Formazione: apprendimento delle basi teoriche sul capitolo mappe;

Servizi forniti dalla Associazione Esperienza e Mappe Grezze

Progettazione di interventi

L’Associazione offre progetti di ricerca intervento ad enti pubblici e privati per:

  • La produzione di Mappe Grezze (su diversi argomenti);
  • La definizione di procedure per controllare l’ambiente;
  • L’acquisizione di dati attraverso l’esperienza diretta degli uomini;
Formazione

  • Progettazione;
  • Organizzazione;
  • Gestione;
  • di corsi di formazione sull’uso e sulla realizzazione di “mappe grezze” che permettano di “controllare” (governare) l’ambiente.
    I corsi di formazione sono rivolti ad operatori socio-sanitari, a medici, a psicologi, a tecnici ambientali, ad amministratori pubblici, a RSU e RLS dei sindacati e a tutti coloro che si occupano di problematiche ambientali.

Consulenza

  • Accesso all’archivio delle mappe grezze, sia italiane che estere;
  • Informazioni sull’uso della mappe grezze nel proprio lavoro;
  • Diffusione dei dati raccolti sull’ambiente;

    Il servizio di consulenza è fornito da psicologi, medici e tecnici esperti nella produzione di mappe grezze.

Quale mercato

di Norberto Bobbio
La Repubblica – Giovedì 18 Ottobre 2007

Il filosofo e lo storico – dialogo sulla politica

di Nello Ajello

La lettera inedita di Norberto Bobbio, che qui pubblichiamo, appare nel volume Norberto Bobbio – Giuseppe Tamburano, Carteggio su marxismo, liberalismo e socialismo (Editori Riuniti, pagg. 145, euro 14: da oggi in libreria). La corrispondenza tra il filosofo e lo storico, oggi presidente della Fondazione Nenni, si estende dal 1956 al 1997. In quel ’56 Tamburrano stava allontanandosi dal PCI verso il partito di Nenni, con il timore però, che esso cadesse, dopo il giusto ripudio del frontismo, in una deriva “revisionistica”. Questo lo stato d’animo che egli espresse nella sua prima lettera a Bobbio. Da una parte c’è un giovane appassionato di questioni ideologiche e di attualità politica; dall’altra – ricorda Tamburano – “un Bobbio che sente il dovere di discutere con questo giovane sconosciuto come un servizio reso all’onestà intellettuale”. Figura, tra i temi del carteggio, un libro di Tamburrano su Gramsci, che venne accolto con asprezza dalla stampa comunista. Di quel libro Bobbio assunse le difese. Nel resto del carteggio gli argomenti sono la sinistra, i socialisti e i comunisti.

Su questo sfondo si colloca la lettera di Bobbio che qui appare. Datata febbraio 1997, essa prende spunto dal documento intitolato “Socialismo oggi”, redatto dalla Fondazione Nenni, con il contributo di noti esponenti socialisti, a partire da Antonio Giolitti. Il filosofo torinese siede a Palazzo Madama come senatore a vita indipendente nel gruppo socialista, non condividendo la pratica del PDS, di “attirare a sé, non facendo nessuna concessione, gli intellettuali di sinistra in ordine sparso” sotto le insegne della sinistra indipendente. Quanto alla sostanza del partito nato sulle ceneri del PCI, Bobbio ha già avuto occasione di lamentare la scarsa eco riservata alla questione dei “diritti sociali”: “Se ne parla il meno possibile”, lamenta, “per non offendere i liberisti trionfanti”. Nel documento della Fondazione Nenni, cui plaude il senatore a vita, si raffigura la sinistra addirittura “genuflessa sulla via di Damasco d fronte al mercato”.
Il saggio di Bertrand Russel, cui l’autore si rifà, è Teoria e pratica del bolscevismo. Il lettore potrà cogliere nelle tesi di Bobbio un “promemoria” sul binomio socialismo-mercato, alla luce dell’attualità che vede nel Partito Democratico l’esordio d’un nuovo soggetto politico.

Quel che la sinistra deve dire sul mercato - Febbraio 1997 - di Norberto Bobbio

Caro Tamburano, ho letto con interesse il documento sul socialismo oggi, e ti ringrazio di avermelo mandato. La discussione su questo tema è più interessante che mai, sempre attuale, e vale la pena di continuare a tenerla in vita. Speravo che al congresso del PDS ci potesse essere posto anche per un discorso di prospettiva. Mi pare però che questo discorso non ci sia stato. Va bene la tattica, va bene la strategia, ma il primo partito della sinistra in Italia non può dimenticare la domanda che in questi anni ci siamo posti infinite volte: “Dove va la sinistra?”.

Interessante è nel vostro documento la distinzione tra i mezzi e il fine, e il rilievo maggiore dato al fine che non ai mezzi. Si può tuttavia obiettare che i mezzi consistenti nella collettivizzazione, nell’economia di piano contrapposta a quella di mercato sono stati finora così strettamente connessi all’ideale del socialismo, sia democratico sia autoritario, che non è facile prescinderne completamente. Ho riletto in questi giorni il noto saggio di Bertrand Russel (Teoria e pratica del bolscevismo) che non era certo un comunista e detestava Lenin, in cui sostiene che dal punto di vista economico il socialismo si appoggia “sul potere dello Stato che comprenderà, come minimo, la terra e i giacimenti minerari, il capitale e le banche, il credito e il commercio con l’estero”.

Interessante è che poco più oltre, quando parla delle attività che dovrebbero essere socializzate menziona oltre alla “salute pubblica” anche le “centrali elettriche”. Naturalmente lo statalismo del socialismo anche democratico veniva accettato in quanto lo Stato democratico era, per l’appunto, democratico, vale a dire lo Stato dei cittadini, secondo la nota formula: “Lo Stato siamo noi”. Statalismo, sì ma anche democrazia. Quello che non era previsto non era tanto il vizio dello statalismo, quanto quello della incompiuta democratizzazione dello Stato.

Di qua la rivolta contro lo Stato, in nome del mercato, una volta constatato che la statalizzazione dell’economia non è andata di pari passo con la compiuta democratizzazione dello Stato, e più Stato non ha voluto dire puramente e più semplicemente più democrazia.
Per quanto riguarda il mercato sono totalmente d’accordo con le osservazioni fatte nel documento. Anch’io sono convinto che uno dei temi della sinistra deve essere non tanto la negazione della positività del mercato, quanto la sottolineatura dei suoi limiti, non soltanto politici, ma anche etici.

Prima di tutto mi pare ovvia l’osservazione che l’uomo non vive di solo mercato. La sfera del mercato è quella dello scambio di beni, che riguarda l’uomo in quanto “economico”. Ma ogni uomo vive in questa sfera una sola parte, se pur rilevantissima, della sua vita. Nella maggior parte della sua giornata, l’uomo vive in “modi di vita” in cui il mercato non c’entra. Nella famiglia i rapporti fra le sue parti non sono rapporti di mercato. Così nella scuola i rapporti fra insegnati e studenti non sono rapporti di mercato.

Così nella sfera più o meno ampia secondo le diverse personalità, ma altrettanto rilevantissima, di carattere religioso. Altrettanto si deve dire della sfera, anch’essa per ognuno di noi di indiscutibile importanza, dell’amicizia. Sono tutte sfere in cui il rapporto tra individui non è di scambio ma principalmente di donazione. Inutile soffermarsi oltre su questo tema tanto è evidente la sua rilevanza e ricchissima la bibliografia che ne tratta.

È in queste sfere, che non hanno niente a che vedere con i rapporti di mercato, che si formano gli individui nell’ambito di una qualsiasi convivenza. Anche i rapporti di mercato si svolgono più o meno correttamente secondo le qualità morali che si formano, quando si formano, non nella sfera del mercato, la quale, anzi le presuppone. Per dirla in breve, il mercato ha bisogno di persone che si fidino le une delle altre, ovvero di persone leali. La lealtà è una qualità morale che dipende da un certo tipo di educazione, che dipende dal modo in cui il singolo individuo vive, cresce e matura nelle sfere altre rispetto al mercato.

Mi rendo conto che sto affrontando un tema che richiederebbe ben altri sviluppi. Ma il rapporto fra etica e mercato, e il problema in generale dei limiti del mercato, è un tema sul quale la sinistra non deve tralasciare di tornare con argomenti sempre più stringenti. Che del mercato debba avere dei limiti etici, lo sanno tutti. Per fare un esempio macroscopico, sul commercio delle armi il mercato non ha assolutamente niente da dire. Se ci sono Stati, o anche soltanto gruppi terroristici anti-stato, che chiedono armi, e altri Stati che queste armi offrono con le loro industrie, il mercato non ha niente da dire. Però anche in sede internazionale il problema del limite degli armamenti è sempre in discussione. Quali sono i criteri in base ai quali questi limiti debbono essere posti? Non si può aspettare che essi vengano posti dal mercato. Il mercato, di per se stesso, non ha alcuna morale. E poi: chi ha il diritto e il dovere, e quindi il potere, di porre questi limiti?

La risposta a questa domanda non può venire ancora una volta se non dalla soluzione del difficile rapporto tra Stato e mercato. Ma è proprio nella diversa soluzione di questo rapporto che il dibattito deve continuare: più Stato o più Mercato, o né Stato né Mercato in funzione di una terza via, che può essere tanto quella del “terzo settore” quanto quella della solidarietà, e quindi del “volontariato” (tipica sfera in cui il rapporto non è di scambio ma di donazione). È su tale dibattito che la sinistra avrebbe qualcosa da dire.

La strage alla Thyssen Krupp... è il capitalismo bellezza! ovvero i padroni senza patente!

Domanda: perché tutti quegli estintori in una acciaieria? Perché nel processo di laminazione di una acciaieria il fenomeno di piccoli incendi è sempre presente. In quanto 1° la lamiera o il profilato che passa attraverso i rulli per la sua deformazione è sempre caldo: ad una temperatura di circa 800 gradi, 2° per l’uso continuo dell’olio minerale che serve da un lato per fare i dovuti trattamenti termici al prodotto laminato, e per lubrificare tutte le parti degli impianti sempre in movimento. Al che nel processo di lavoro ci sono continue scintille che possono provocare piccoli o grandi incendi.

Per cui ne viene per questi impianti una esigenza continua di manutenzione, di manutenzione programmata: ogni tot di ore occorre procedere alla manutenzione e sostituzione di interi parti dell’impianto perché sia sempre in grado di produrre senza causare intoppi o fermate o tragedie come quella che è avvenuta per i 10 lavoratori alla linea 5 di laminazione. Occorre anche precisare che l’uso degli estintori deve essere molto accorto nel senso che un estintore una volta usato, anche per poco, perde tutta la sua capacità e funzione.

Alla ThyssenKrupp è in corso una inchiesta della magistratura che avrà il compito di appurare le cause del disastro. Però da questa grave vicenda si possono trarre alcune osservazioni:
Il problema non è solo nella mancata ispezione dall’ASL o nella carenza degli Ispettori del Lavoro. Da circa 20 anni si sa che l’organico presente tra gli ispettori dell’ASL è carente di oltre il 20%. Cosa grave in sé, però ancorché fosse ripianato cosa potrebbero rispetto alle oltre 60.000 imprese nella città di Torino? Ma è solo con più controlli che si potrà far fronte al fenomeno che da oltre 10 anni vede la situazione rimanere sempre la stessa? 4 morti la giorno (ogni morto costava nel 1996 350 milioni), oltre 900.000 infortuni l'anno, sono in aumento le malattie professionali, ecc. e sì che dal 1994 in Italia c’è una nuova legislazione: il D.Lgs. 626/94, come mai non è cambiato quasi niente?

Occorre sapere che l’80% degli infortuni avviene nelle imprese con meno di 15 addetti (fonte INAIL). In queste imprese il Documento di Valutazione dei Rischi (previsto dalla 626) è redatto in proprio dal datore di lavoro. La presenza dei Sindacati in queste imprese in pratica è pressoché nulla, quindi manca il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza.

Chi è l’imprenditore: in genere è un ex lavoratore con una buona professionalità, ma che a differenza di un barista (il quale per aprire un Bar deve sostenere un esame) il nostro per fare l’imprenditore edile o altro basta che vada ad iscriversi alla Camera di Commercio. Il nostro ha chiaro un obiettivo: farsi ricco in fretta (almeno questa è la sua chiara aspirazione). Non sa nulla né del Diritto del Lavoro in Italia, né della Legislazione alla Salute e Sicurezza. Occorrerebbe quanto meno prima della sua “intrapresa” fargli fare un breve corso di formazione ed un relativo esame per poter fare l’imprenditore. Ma fra tutti i recenti interventi ha ragione Luciano Gallino su Repubblica del 7 Dicembre, ovvero di Marco Vitale sul Sole 24Ore (!) dell’11 Dicembre, quando entrambi mettono in discussione la mancanza di una cultura dell’impresa italiana sui temi della sicurezza e della salute dei lavoratori.

La monetizzazione della salute. Per tutti gli anni ’70 una intera generazione vinse una battaglia storica contro la monetizzazione della salute: “in cambio di quattrini non ti dò la mia salute, devi bonificare l’ambiente di lavoro”. Ora i lavoratori vivono in un ritorno della “monetizzazone della salute”, non più ovviamente nel rapporto tra mansione specifica e “paga di posto”, ma nel rapporto tra “presenza in officina e salario”. La sconfitta è grande per il movimento dei lavoratori: vedi il fenomeno abnorme degli straordinari (alla ThyssenKrupp fino a 16 ore quando normalmente fanno 10-12 ore al giorno). In pratica abbiamo i “fondamentali” in mano alle imprese: l’orario di lavoro e il salario.

A maledire il tutto vi è poi il fenomeno del lavoro precario, di per sé causa di infortuni per sé e per gli altri lavoratori (qual è mai il processo di formazione sulla mansione che questi hanno o ricevono?): tra i lavoratori sono quelli che più facilmente si infortunano.

Il tutto aggravato dal fenomeno della immigrazione che vede lavoratori che vengono da altri paesi a sostituire i nostri specie nei posti più pericolosi e più gravosi, sottoposti al ricatto del lavoro che bisogna averlo per non sprofondare nella clandestinità.

Cosa fare: come CIPES Piemonte e come Associazione Esperienza & Mappe Grezze andiamo da tempo dicendo e denunciando in convegni e riunioni varie, l’esigenza di attrezzare i singoli lavoratori rispetto alla conoscenza dei rischi che ciascuno corre sul proprio posto di lavoro. Per questo abbiamo prodotto da un lato un software che utilmente utilizzato dalle imprese potrebbe essere di aiuto per far fronte a questa impresa di informare in maniera la più efficace i lavoratori e dall’altro un corso di formazione rivolto ai giovani lavoratori, con un occhio particolare agli stranieri . Non è certo questa la soluzione di tutti i mali, ma si sa che per percorrere 100 km bisogna mettersi in cammino.

Gianni Marchetto
(presidente dell’Ass. Esperienza & Mappe Grezze)

Il Kayzen in salsa liberista

di Gianni Marchetto

Sulla Precarietà. Ora vorrei ragionare sul tema della precarietà e per farlo mi aiuterò facendo riferimento a due trasmissioni televisive della 7 - 8 e mezzo di Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni e l'Infedele di Gad Lerner. Tutti ovviamente contro il fenomeno della precarietà e (salvo Rinaldini e Ferrero), favorevoli alla flessibilità. Nella prima tra i nostri c’era solo Gianni Rinaldini contro quattro. Nella seconda Paolo Ferrero contro quattro (con la presenza della compagna Maulucci della Segr. Naz. della CGIL). In tutte e due veniva (da destra! con Giuliano Ferrara in testa) denunciato il livello intollerabilmente basso dei salari dei lavoratori italiani. Quel tanto che quasi tutti gli interlocutori facevano delle domande (più che interessate) a Rinaldini, a Ferrero e alla Maulucci. Al che i nostri tentavano di difendere i 2 livelli di contrattazione, in quanto Giuliano Ferrara, Tito Boeri e una economista di stampo liberista, imputavano sostanzialmente all’azione generale del sindacato (vedi i CCNL) un appiattimento in basso delle retribuzioni. Di più, Sacconi (ex CISL, ex PSI ora in Forza Italia) affermava che bisognava mettere in soffitta il conflitto con il proprio padrone per tentare un percorso che rendesse “complici” il lavoratore con il proprio padrone attraverso una contrattazione salariale tutta rivolta verso una condivisione su degli obiettivi di risultati aziendali. Così come l’economista (una donna) diceva che solo nella esaltazione della contrattazione aziendale ci sarebbe un movimento positivo, imitabile, ergo con un sventagliamento delle tariffe salariali tra i diversi comparti dei lavoratori, fabbrica per fabbrica, territorio per territorio ci sarebbe quel dinamismo necessario per la crescita dei salari nel nostro paese. Una sorta di esaltazione della contrattazione articolata.

Di contro Ferrero faceva notare che i bassi salari sono anche la “naturale” espressione della debolezza dell’apparato industriale italiano, troppo piccolo e disperso, aggravato dalla scarsa specializzazione sui prodotti, da una cronica carenza di investimenti su ricerca e innovazione, ecc. che lo porta alla fattura di prodotti con un basso valore aggiunto e giustamente (al contrario della Maulucci che puntava prima verso una politica industriale che risolvesse tali questioni e poi dopo ad un riadeguamento dei salari), Ferrero sosteneva che prima era opportuno che i salari aumentassero per “provocare” nel sistema delle imprese un recupero di produttività attraverso la ricerca, l’innovazione, ecc. A Tito Boeri che imputava i bassi salari a: 1° alla mancanza in Italia (unico tra i paesi della UE) di una legislazione sul Salario Minimo Garantito e 2° sul fatto di una rigidità del mercato del lavoro che a suo dire ha come effetto da parte dei padroni quello di “evadere” dalle norme contrattuali, la Maulucci sosteneva giustamente che in Italia a differenza che negli altri paesi della UE vigono i contratti di lavoro regolati erga-omness.

Ferrero, giustamente, faceva notare che per aumentare i salari occorreva certo una diminuzione della tassazione alla fonte per il lavoratore e il datore di lavoro… però fino ad un certo punto, perché se i soldi rimangono nelle tasche di questi, chi ci pensa per la sanità, la previdenza, ecc. ecc. ecc.

Le contraddizioni: non evidenziate da nessuno

Sulla complicità. Ammesso e non concesso la bontà nel render complici il lavoratore con il proprio padrone, quale complicità è possibile che si instauri tra un lavoratore precario (per il periodo di qualche mese o al massimo un anno) e il suo padrone? Qual è il motivo recondito che può favorire tale processo? Al massimo si possono avere invece altri comportamenti: il servilismo, il lecchinaggio, ecc. per alcuni con l’obiettivo (comprensibile) di guadagnarsi il posto e per altri lo sbattimento generale per la realtà appunto del tutto precaria in cui il singolo lavoratore si viene a trovare. Di più, quale curiosità ci sarà mai nell’apprendere un lavoro che non si sa se dovrà continuare o meno. Con gli effetti che questo atteggiamento ha sulla qualità del prodotto e del lavoro (immaginiamo nel lavoro della Pubblica Amministrazione: il prodotto sono servizi per i cittadini!).

La tostatura del caffè e il “precario”. Volendo si possono trovare in quasi tutti i processi produttivi, e maggiormente dove il prodotto ha a che fare con il gusto alimentare dei clienti, dove la norma è l’utilizzazione di lavoratori particolarmente esperti, dotati di altissima professionalità derivante da un lungo esercizio nella professione quale per es. il “tostatore di caffè”, che con il fischio viene scelto dal padrone tra i suoi precari. Bisogna accontentare il cliente liberista, in questo caso!

Il padrone lo sa bene. Ma d’altra parte il padrone sa benissimo queste cose. In Italia l’uso della precarietà non è dato da esigenze di carattere produttivo quali rispondere ad esigenze “oggettive” di flessibilità (il lavoro di ristorazione nel periodo estivo nei luoghi marini), ma, come dice bene Maurizio Zipponi all’Infedele di Gad Lerner, obbedisce alla scelta di riduzione dei salari, dei diritti, della possibilità di coalizione e di lotta di una parte anche minoritaria di lavoratori che di per sé annichilisce anche la maggioranza degli altri lavoratori. Quando questa strategia sia illuminata è tutto da vedere. La concorrenza alle produzioni cinesi e indiane sarà senza fine e alla lunga per noi perdente, condannando il nostro sistema produttivo a fare “carabattole”.

La piena occupazione e la flessibilità. Nel 1970 Agnelli denunciava un 20% di turn-over all’interno degli stabilimenti FIAT. Cosa segnalavano quelle cifre sul turn-over: che c’era persino chi nel periodo di prova “assaggiato il piatto” non lo gradiva affatto e se ne andava e quindi in un periodo di quasi piena occupazione la flessibilità (da posto a posto di lavoro o nella scala sociale) era una “chance” ricercata dai singoli lavoratori. Questo alla faccia della rigidità. Ma da che pulpito arrivano poi queste accuse rivolte al “posto a vita”, a una sorta di conservatorismo e quant’altro: dalla “casta” dei giornalisti (più o meno di sinistra, più o meno liberisti), dalla “casta” degli economisti e dei giuslavoristi, tutti figli di giornalisti, economisti e giuslavoristi. Ma che vadano al diavolo! È chiaro che la causa principale non sono le leggi che tendono (malamente) a disciplinare il fenomeno. La causa è evidentemente da ricercarsi nella struttura economica e nell’uso perverso e disumano dell’orario di lavoro.

Un diverso uso del tempo: Io così ragiono oggi, rispetto anche alla riduzione di orario di lavoro. Non mi entusiasma più di tanto la RO a 35 ore perché rimane tutta in una logica industrialista. Un diverso e innovato uso del tempo che tenti di andare oltre la divisione storica del lavoro produttivo e riproduttivo (che in ultima analisi è anche gran parte della divisione del lavoro tra uomo e donna).

Certamente vanno battute (o comunque va fatta resistenza) verso tutte quelle forme di riduzione di orario che tendono a ridurre la settimana con un allungamento della giornata lavorativa. Ne andrebbe della integrità psico-fisica dei lavoratori, nei fatti riducendo il lavoro al solo salario e il tempo "libero" dedicato al solo consumo. Sarebbe il trionfo del modello americano (in Italia!), costruendo un individuo sostanzialmente schizofrenico, che accetta un lavoro stupido ed eterodiretto in fabbrica, con una falsa possibilità di realizzarsi fuori.

Quindi il problema di un superamento della divisione del lavoro continua ad esistere, anche e soprattutto nella fabbrica integrata, in quanto il nocciolo duro del Taylorismo, la divisione tra chi pensa e chi esegue, non viene minimamente scalfito.

Invece vanno sperimentate tutte quelle forme di un diverso uso del tempo nella accezione che dicevo più sopra. La proposta:

20 ore di lavoro produttivo
8 ore di lavoro riproduttivo
8 ore di formazione, professionale e/o culturale


La scansione delle tre fette di orario risponde ciascuna ai problemi della società moderna. Evidentemente in termini cumulabili nel tempo. La prima (le 20 ore, con una ipotesi settimanale sui 5/6 giorni lavorativi), risponde alla necessità di ridistribuire il lavoro esistente. La seconda entra dentro la crisi dello stato sociale evitandone lo sfaldamento (con un rapporto di lavoro sostanzialmente fatto dagli Enti Locali), tra l'altro il costo sarebbe compensato da un recupero produttivo della CIG, CIGS, Mobilità, ma ancora di più da un dato culturale che nel tempo si può realizzare e cioè quello di avere un individuo (l'uomo), costruito anche da una attività non direttamente produttivistica, ma su una attività dove l'accento non viene solo dall'efficienza ma dell'efficacia del suo lavoro. La terza, vuole essere nei fatti il superamento della logica borghese sulla formazione degli individui, che vuole l'individuo interessato ai processi formativi quasi esclusivamente nella età giovanile e poi tutta la vita dedicata al lavoro.

In pratica io scelgo lo stato per la sua capacità di creare il “lavoro di efficacia” e il sistema delle imprese per il “lavoro di efficienza”.

In URSS c’era una netta divisione tra quello che io chiamo il lavoro di efficacia e quello di efficienza – il lavoro di efficacia oltre che alla cura delle persone e la loro istruzione, era volto alla produzione di strumenti di morte = le armi (perché è questa una attività dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficacia = una mitragliatrice deve sparare sempre senza mai incepparsi, un aereo deve stare sempre in aria, ecc.), il lavoro di efficienza verso la produzione di beni di consumo durevoli (dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficienza = quanta produzione oraria). Intanto una prima contraddizione nella costruzione del socialismo = che il meglio delle capacità professionali dei lavoratori, della scienza e della tecnica era tutto fiondato sulla produzione di strumenti di morte! Quando Lenin aveva vinto la sua battaglia per la egemonia sulla parola d’ordine: Basta con le guerre e la terra ai contadini! Mentre sul lavoro di efficienza c’era lo sbattimento generale e la maggiore inefficienza!

La scala mobile. Possibile che tutti (compreso i nostri) dimenticano che i salari italiani sono stati difesi per un certo periodo perché c’era la “scala mobile”? non ci sarebbe da ripristinare un qualche automatismo salariale, magari una volta l’anno. E questo per la particolare struttura industriale e produttiva italiana, fatta di migliaia e migliaia di piccole imprese che non verranno mai toccate dalla contrattazione aziendale. Così come non sono mai state toccate nel passato.

Sulla contrattazione articolata. Apparentemente i ragionamenti da me sentiti davano questa impressione: di una sua esaltazione. Ma a ben vedere erano del tutto capovolti rispetto alla nostra tradizione dell’articolazione (uso un linguaggio militare): la lotta articolata erano dei reparti di classe operaia che si dislocavano in trincee più avanzate per permettere al resto dell’esercito di pervenirci nel Contratto Nazionale. Nei ragionamenti da me sentiti c’era invece un ragionamento del tutto liberista, quasi che il modello che va bene per i padroni possa andare bene anche per i lavoratori, quando nell’esperienza storica di carattere positivo e acquisitivo questi l’hanno avuta nella cooperazione tra di loro come esperienza imitativa e non invece come concorrenza tra di loro.

L’esperienza USA. Ma del resto nessuno ha tirato in ballo l’esperienza della classe operaia e dei sindacati americani, attualmente ai minimi storici, esperienze storiche per altro non caratterizzate dal “classismo” europeo e ancor più italiano, ma sostanzialmente sindacati di “mercato”.

L’esperienza giapponese. Ma così come nessuno ha tirato in ballo l’esperienza giapponese, di cui parlano le belle note di Cesare Cosi. Di cosa si tratta in estrema sintesi: in linea con la tradizione della “cultura del riso” di medioevale memoria (del medioevo giapponese) che vuole una bassissima mobilità territoriale, accompagnata dal “farsi carico” (in termini del tutto paternalistici) del signore del luogo, della condizione dei suoi servi, la nascita dell’industria giapponese era del tutto tributaria di questa cultura e impostò le relazioni interne alla fabbrica tra lavoratori e datori di lavoro in questa maniera. Per cui abbiamo (nelle grandi fabbriche) il lavoro garantito a vita con il diritto di prelazione per i propri parenti e un sistema di lavoro improntato dal Kaizen (da tanti Kaizen). È la filosofia del Total Quality. Questa esperienza che ha fatto le fortune dell’industria giapponese per decenni, così come dice giustamente Cesare è sì una applicazione del Taylorismo ma cucinato in salsa giapponese. È stata scoperta alla fine degli anni ’80 in Italia e quindi qui importata con grande enfasi specie dalla FIAT di Romiti. Bene. Ma dov’è che si è mai visto negli stabilimenti della FIAT che un lavoratore premesse un bottone per fermare la catena di montaggio in occasione del fatto che gli passava davanti una vettura mal fatta? Mai al mondo! Nello stabilimento di Melfi è vero che il bottone c’era, però non funzionava, era disattivato! E si che questa era la forma su cui si basava il tanto decantato Kaizen: rendere partecipe il singolo lavoratore del processo di lavoro al fine di evitare gli scarti ricorrenti. Ma quando mai le imprese italiane hanno mai fatto le riunioni giornaliere di piccolo gruppo di lavoratori per discutere insieme come fare meglio. In quali imprese italiane è presente la stessa dinamica delle categorie professionali e delle retribuzioni alla giapponese caratterizzate da un ventaglio minimo di differenziazioni. Eccetera. È vero che tutto ciò aveva un suo prezzo: chi non ci stava era emarginato, quel tanto che lo viveva anche psicologicamente fino ad arrivare al proprio suicidio. Ed è vero la totale subordinazione del sindacato a tale modello. In sintesi si può dire un modello che “vuole strizzare l’acqua da un asciugamano asciutto”. Però perché non vedere in quella esperienza anche il meglio dell’esperienza di contrattazione italiana sui problemi delle OdL negli anni ’70? E questa esperienza si badi bene venne fatta del tutto in maniera autonoma da parte dei lavoratori e dei loro sindacati! Vedi i 3 esempi di cui io parlo nel mio “tormentone” sulla Mirafiori a pag. 33 al capitolo dedicato all’intelligenza operaia. Quel tanto che le uniche pubblicazioni che scientificamente riconoscono tutto ciò sono di fonte padronale, vedi gli studi sui mutamenti intervenuti in 10 anni nelle varie officine della FIAT ad opera della TELOS (azienda di consulenza aziendale in mano alla FIAT) che riconosceva che accanto ai progressi sulle nuove tecnologie, all’introduzione di nuovi prodotti, “anche la stragrande maggioranza della contrattazione effettuata negli anni ’70 era stata causa favorente di innovazione e di aumenti di produttività”.

Ma si sa, ciò che noi vediamo della realtà che ci circonda combina con ciò che noi conosciamo: se andiamo nel bosco cosa vediamo: alberi! Se siamo dei botanici possiamo vedere le querce, i pioppi, i castani, ecc. per cui degli anni ’70 la maggioranza cosa vede: cortei e pestaggi dei capi. È vero poi che la situazione giapponese non era del tutto assimilabile a quella descritta appena sopra: ho letto che riguardava il 30% della forza lavoro, un altro 30-40% subiva una forte mobilità, e il rimanente era in condizioni di carattere “servile”. Vero. Però la situazione italiana com’è? Si può dire che la scansione è la stessa con la precarietà che la fa da padrone dappertutto e che rende insicuri anche i sicuri. Ed è del tutto ovvia la scelta che il sottoscritto farebbe tra due avversari: italiani o giapponesi (sarei per scegliere ovviamente questi ultimi). Sarebbe sul serio una bella sfida.

Competizione e cooperazione. È ovvio che nella cultura del padronato vi sia radicato il concetto di “competizione” fino a ritrovarlo nel proprio DNA. Vale il “morst tua vitae mea”. Quel tanto che le uniche forme di cooperazione che attiva sono quelle (assieme ai suoi simili) di “difesa” rispetto alle leggi e all’intervento dello stato nei suoi interessi, ovvero per dare addosso ai lavoratori. E ancora quando parla e chiede la cooperazione nei confronti dei lavoratori di solito lo fa con l’imbroglio, per sfruttare ancora di più i lavoratori. Pochi sono coloro i quali cercano la collaborazione con i propri dipendenti in maniera disinteressata. Mentre per i lavoratori la storia del movimento operaio e lì a dirci che la totalità delle conquiste economiche, di diritti, legislative, di stato sociale, ecc. sono avvenute tutte per effetto della cooperazione collettiva. E così sarà sempre fino a che in questo mondo rimarranno delle ingiustizie che dividono pochi privilegiati dai molti sfruttati. Possibile che sia così difficile capirlo. È incredibile la superficialità e la mancanza di dialettica nel vivere degli uomini che caratterizza questi moderni liberisti.

Norberto Bobbio. In allegato offro una riflessione di Norberto Bobbio sui limiti “naturali” del mercato che mi pare di una attualità del tutto moderna. Ma è mai possibile che un “liberista puro” condanni la propria esistenza (nei suoi vari rapporti con le altre persone) ad un puro rapporto di scambio, scandito solo dal tornaconto economico, di mercato. Che pover’uomo questo uomo liberista! Ed è in relazione a questa concezione dell’uomo che occorre dire e praticare che “ribellarsi è giusto”.

Giovani e anziani. Così come non se ne può più delle “bubbole” rivolte ai lavoratori anziani che sarebbero dei garantiti ad oltranza, superpagati, supergarantiti e super… ecc. Ma come si fa a non vedere la situazione (per la prima volta) che vede un trasferimento imponente di risorse finanziarie dai lavoratori anziani ai giovani a partire dalla situazione familiare: i cosiddetti “bamboccioni”!

Chi premiare e chi punire. È evidente che una politica industriale degna di questo nome tra le altre cose dovrebbe premiare tutte quelle aziende che fanno profitti certo, ma che all’opposto dei liberisti ad oltranza tengono in conto i lavoratori dal punto di vista della loro sicurezza e dal punto di vista della loro competenza lavorativa e professionale: ergo, che promuovono tutte quelle forme di partecipazione al processo produttivo atte a renderlo accettabile ed umano. Ci sono di queste aziende in Italia? Certo che ci sono! Andrebbero messe in un archivio di “buone pratiche”, messo su Internet e fatto conoscere ai più, per dimostrare che si può produrre bene, facendo profitti, senza cavare il collo ai lavoratori. Anche qui però mi sa tanto che questo mio ragionare con il buon senso non faccia per niente il paio con una cultura sedicente di sinistra (anche se radicale) innamorata di spiegare sempre la “normalità”: la sginga, tutto va male signora la marchesa! Mentre dovremmo dedicare tempo e risorse per fare delle ricerche e delle inchieste sulla “devianza” (come mi ha sempre insegnato Ivar Oddone): scoprire le esperienze positive per metterle in luce al fine di favorirne l’imitazione. Non sarebbe questa una grande lezione che un sindacato veramente autonomo dovrebbe fare - fare delle esperienze di contrattazione sulla OdL con al centro il seguente binomio: + democrazia = + produttività.

Il ruolo dello stato. Il grande assente era “l’intervento dello stato nell’economia”. È questo ancora il grande tabù (anche per la sinistra radicale, salvo pochi). A quando un economista della sinistra che faccia i conti in tasca al capitalismo (liberista?) italiano in termini di soldi, prebende ed un eccetera molto lungo, che questi dà al padronato italiano, ricavandone da questo l’evasione fiscale più alta dei paesi industrializzati?