martedì 26 febbraio 2008

ISPELS: Profili di rischio di comparto

Il comparto è definito come "l'insieme delle unità locali dei luoghi di lavoro dove si svolgono cicli di lavorazione simili o affini" e viene osservato nell'ambito delle piccole e medie imprese, artigianato e pubblici servizi.

Il rischio è definito come "la probabilità che un individuo vada incontro ad una alterazione dello stato di salute in seguito all'interazione con un determinato fattore potenzialmente nocivo" (fattore di rischio).

La banca dati dei "Profili di Rischio di Comparto" raccoglie le informazioni sui rischi in ogni singola fase del ciclo produttivo direttamente osservato in un insieme di imprese che rappresentano il comparto sul territorio. Il contenuto della banca dati rappresenta una prima base informativa, prodotta con ricerche dell'ISPESL, aperta a tutti i contributi finalizzati all'aggiornamento dei profili esistenti, all'integrazione di nuovi profili nella banca dati, al collegamento con altre sorgenti informative che approfondiscono temi specifici trattati nel profilo.

La banca dati è composta da un flow chart del ciclo, da un documento per l'intero comparto e da un documento per ogni singola fase di lavorazione. La descrizione di ogni singola fase è, con alcune limitate eccezioni, composta da otto capitoli così definiti:

Capitolo 1 - La fase di lavorazione
Capitolo 2 - Attrezzature, macchine, impianti
Capitolo 3 - Il fattore di rischio
Capitolo 4 - Il danno atteso
Capitolo 5 - Gli interventi
Capitolo 6 - Appalto a ditta esterna
Capitolo 7 - Riferimenti legislativi
Capitolo 8 - Il rischio esterno

http://www.ispesl.it/profili_di_rischio/index.asp

Il processo possibile - L'esempio della ThyssenKrupp

di Santo Della Volpe

“Fondamentale, l’importanza dell’informazione in questa vicenda della Thyssenkrupp è stata fondamentale…” dice il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, guardando con orgoglio i 170 faldoni dell’inchiesta sulla tragedia del 6 dicembre scorso che causò la morte di 7 operai. 200mila pagine di documenti con i risultati di perquisizioni negli uffici dell’azienda, interrogatori, testimonianze perizie.

Il pool di magistrati (con Guariniello i sostituti procuratori Laura Longo e Francesca Traverso) di tecnici ed ispettori ha chiuso le indagini dopo soli 2 mesi e 19 giorni dal rogo nella linea 5 della Thyssen: ”abbiamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati di chiudere entro fine mese” dice ancora il procuratore aggiunto torinese, “dando la giusta risposta a una istanza di giustizia che ci è stata fatta dal paese, dimostrando che in questa giustizia, questo Stato tanto vituperato, è in grado di rispondere alle aspettative. E grazie anche a voi che ci avete fatto vedere quanto il paese chiedesse giustizia”.

Ma non è solo al mondo dell’informazione che pensa il dottor Guariniello: “Per fortuna - continua - abbiamo un Presidente della Repubblica molto attento alla tragedia degli infortuni sul lavoro, che ci ha spronato a lavorare, e bene, per le indagini e gli approfondimenti necessari a far emergere le responsabilità e, soprattutto, il modo per evitare in futuro che accadono drammi come quello della Thyssenkrupp. Il presidente Napolitano, più di tutti, ha raccolto la domanda di giustizia che si è levata dalle famiglie delle vittime. A lui dobbiamo un grazie di cuore”.

La prima novità infatti di questa inchiesta sul rogo della Thyssenkrupp è la sua stessa conclusione in tempi brevi: volendo la giustizia funziona, senza aspettare anni e senza favorire l’impunità da prescrizione, come viene definita dallo stesso dott. Guariniello. Il procuratore Generale di Torino, Giancarlo Caselli, l’aveva promesso il giorno dei funerali, davanti alle famiglie delle vittime straziate dal dolore:”Chiuderemo l’inchiesta nel più breve tempo possibile” aveva detto. “Certo, dobbiamo riconoscere che la promessa è stata mantenuta” commenta, pur nel suo dolore ancora più forte dopo 3 mesi di mancanza, la signora Isa Pisano, la madre di Roberto Scola, l ’operaio di 32 anni, tra i primi a morire quella sera, investito dalla vampata di olio bollente e nebulizzato fuoriuscito dai rulli della linea 5. ”Ora vorremmo che la giustizia proseguisse il suo percorso velocemente e che i responsabili paghino come è giusto che sia. Saranno i giudici a decidere, ma almeno che si faccia il processo in fretta così come si sono conclude le indagini”, conclude; con un pensiero per i vivi, quei "150 operai che sono senza lavoro da quella sera, con le famiglie ed i figli che aspettano un futuro”. Anche perché è chiaro che lo stabilimento non riaprirà più e per gli ultimi 150 lavoratori dell’acciaieria non si sono aperte nuove prospettive, almeno per ora.

Nel dolore che accompagna il ricordo delle famiglie delle vittime, c’è almeno questa risposta di giustizia: particolarmente importante per altri due elementi di novità. In primo luogo perché le indagini sono state svolte con perquisizioni, interrogatori, testimonianze, come cioè in una inchiesta per qualunque altro delitto, senza limitare le indagini alla sola relazione dell’ispettorato del lavoro, come spesso avviene in caso di morti bianche.

Una indagine complessa con molte persone impegnate, dalle ASL alla polizia giudiziaria, dai vigili del fuoco ai molti consulenti tecnici fino alle istituzioni, regione Piemonte, provincia e comune di Torino, con persone e mezzi. Già questo spiegamento di forze indica perché sia necessario aumentare il personale a disposizione di chi indaga sugli infortuni sul lavoro e lo snellimento delle procedure d’indagine; questa inchiesta è stata chiusa celermente perché c’erano 7 morti dentro l’acciaieria che ha fatto più discutere in Italia negli ultimi mesi: perché i riflettori della stampa e tv sono stati sempre accesi sulla vicenda, per l’emozione che ha comunque provocato. Ora si tratta di estendere la stessa mobilitazione per tutti gli incidenti mortali sul lavoro, per garantire che non ci siano trattamenti diversi per morti che sono tutte ugualmente gravi.

L’altra novità importante dell’inchiesta di Torino emerge dall’imputazione di omicidio volontario con dolo eventuale, oltre all’incendio con dolo eventuale ipotizzata per l’amministratore delegato della Thyssen Italia, Harald Espenhahn (per gli altri 5 imputati si va dall’omicidio colposo e l’incendio colposo con colpa cosciente all’omissione volontaria di cautele contro gli incidenti). E’ la prima volta che nel caso di una morte bianca, per quanto multipla, si propone l’omicidio volontario, ipotesi di delitto che può comportare anche 21 anni di pena, se la corte d’assise dovesse riconoscerne la validità. Non è tanto la somma degli anni che colpisce (anche perché il rito abbreviato e le attenuanti generiche potrebbero portare una eventuale condanna a 7-10 anni al massimo). Quanto il fatto che per la prima volta si può ipotizzare il carcere per i responsabili di u grave incidente mortale sul lavoro. Un deterrente formidabile per chi in passato, confidando sulla lunghezza dei processi e sulla sola imputazione di omicidio colposo al massimo, poteva sperare in una sostanziale “impunità” come afferma il dott. Guariniello.

Nel caso della Thyssen è stato possibile ricostruire che i responsabili della sezione italiana del gruppo,sapevano che dovevano intervenire per mettere in sicurezza gli impianti, ma avevano deliberatamente deciso di correre il rischio spostando gli interventi antinfortunistici a dopo il trasferimento delle linee produttive da Torino a Terni. “From Turin” c’era infatti scritto sulla cartella di documenti aziendali sull’antinfortunistica dello stabilimento torinese, trovata nelle perquisizioni:E questo nonostante la compagnia assicurativa dello stabilimento avesse imposto una franchigia specifica di 100 milioni di euro invece dei 30 previsti fino al 2006,chiedendo espressamente interventi di adeguamento antinfortunistici negli stabilimenti italiani, Torino compreso. Non fu fatto.

Ma quanti sono i casi simili di mancati adeguamenti che possono stare alle spalle di incidenti sul lavoro? Quante morti si potrebbero evitare con interventi preventivi? Il dottor Guariniello su questo punto è chiaro: ”questa esperienza insegna che dobbiamo cambiare metodi investigativi per gli infortuni sul lavoro, mobilitarci per le indagini così come avviene per gli altri gravi reati: E poi pensare che non possiamo dire ,dopo ogni incidente che le leggi devono essere applicate. Dobbiamo pensare a come applicare le leggi prima,per evitare gli incidenti: Ci vogliono nuovi strumenti, più ispettori, è vero, ma soprattutto più specializzazione nei magistrati,tra gli inquirenti: Noi qui siamo una procura grande - continua il magistrato - ma nelle piccole procure, nelle zone di frontiera nella lotta alla criminalità, in tutto il paese insomma, bisogna creare le professionalità giuste, formare competenze. Per questo è necessaria una procura nazionale contro gli infortuni sul lavoro che abbia competenza su tutto il paese, che sappia come intervenire e coordinare le indagini: Così si crea anche deterrenza nei confronti di chi pensa di farla franca senza fare gli interventi preventivi”.

Ed anche questa è una lezione che viene dalla Thyssenkrupp. Bisogna vedere come e se sarà raccolta l’indicazione del procuratore aggiunto Guariniello.

venerdì 22 febbraio 2008

Il pane loro: dedicato alla sicurezza sul lavoro

"L'iniziativa di uno spettacolo teatrale sugli incidenti del lavoro, che verra' rappresentato direttamente nei cantieri e nelle fabbrica e' splendida. Mi riferisco alla produzione "Il pane loro" che viene presentata oggi e alla quale hanno collaborato sia i sindacati che enti locali". Giovanni Russo Spena, uno dei capigruppo al Senato della Sinistra Arcobaleno, commenta così la notizia della prima, il 29 febbraio, nel Porto di Taranto, dello spettacolo di Stefano Mencherini, dedicato al tema della sicurezza sul lavoro. "E' fondamentale- sostiene Russo Spena- che questo dramma quotidiano che si consuma nei luoghi di lavoro diventi presente nella societa' attraverso tutti i canali possibili e certamente quello culturale e' essenziale".

di Franco Martini (Segretario Generale FILLEA CGIL)

Con il progetto “Il Pane loro” si arricchisce l’investimento culturale nella lotta contro le morti e gli infortuni sul lavoro. La lotta per la sicurezza non è solo questione di norme, di buone leggi, da far applicare con sempre più rigore. Le leggi per la sicurezza in Italia ci sono e sono tra le più avanzate in Europa. La loro applicazione, invece, ha conosciuto per lungo tempo una pericolosa latitanza, tanto da parte di ampi settori dell’imprenditoria, che delle istituzioni preposte al loro controllo. Le tragedie sul lavoro che hanno scosso l’opinione pubblica in questi ultimi mesi, le autorevoli denunce ed i fermi appelli ad agire con determinazione espressi dal Presidente della Repubblica hanno riproposto una questione che non è solo di leggi inapplicate. Per lungo tempo il tema del lavoro è stato letteralmente rimosso dal dibattito nazionale. Per lungo tempo è parso che gli operai non esistessero più, o fossero una realtà residuale. In edilizia la “manodopera” ammonta a circa due milioni di persone in carne ed ossa, sono persone che incontrano disagio, fatica, rischio, tutti i giorni e molti di loro lo fanno dall’alba al tramonto. E non solo della rimozione “sociologica” si è trattato. Queste persone hanno una vita (piccolo eufemismo…) sociale e personale, massacrata dalle inaccettabili condizioni di lavoro. Poi, vi sono quelli sfortunati che incontrano l’infortunio, già una disgrazia esistenziale, quando, pur salvandosi in qualche modo, vivono le conseguenze fisiche nell’inidoneità alla mansione, cioè, la perdita del possibile accesso alla professione, dopo l’infortunio.Per quelli, invece, più sfortunati, l’infortunio mortale è una tragedia che continua anche dopo, per quelli che rimangono, perché il salario, molto spesso a nero, era l’unica fonte di reddito per la famiglia colpita, innanzitutto negli affetti, dall’evento tragico. Di tutto questo, negli anni che abbiamo alle spalle, vi sono state poche tracce. Oggi che, la lotta alla sicurezza nei luoghi di lavoro sembra conoscere una nuova stagione di impegno, occorre mettere in campo tutti gli strumenti utili a ricostruire una nuova sensibilità verso il valore del lavoro manuale e –dunque- della persona. Quando si parla di cultura della sicurezza intendiamo affermare questo. Il progetto “Il pane loro” parla di questo e per questo vede il coinvolgimento della Fillea Cgil, riproponendo un analogo interesse e impegno già manifestato per altre iniziative prodotte nel campo culturale. Come sempre, questi strumenti saranno parte del lavoro quotidiano del sindacato di categoria, attraverso la promozione più diffusa di iniziative in grado di veicolare il messaggio contenuto nell’ottimo lavoro di Stefano Mencherini e del centro mediterraneo delle arti, ai quali va tutto il ringraziamento e sostegno della nostra categoria.

da Segre alla Comencini...

di Bruno Ugolini

C’è un rifiorire del cinema dedicato agli operai. Soprattutto quando muoiono. Così leggiamo di registi che accorrono a Torino per filmare la tragedia della ThyssenKrupp. Ed è utile questo crescere delle denuncie anche sotto la pressione degli appelli del Presidente della Repubblica. È ammirevole l’opera indefessa di un’associazione giornalistica come «Articolo 21» e del suo sito Internet. Sono ondate di sdegno vitale, necessario, sacrosanto. Ma lo stillicidio delle vittime non cessa. E le misure messe in atto dall’uscente governo di centrosinistra appaiono bloccate. Altre ne fioriscono, come quella suggerita da un magistrato, Raffaele Guariniello: una superprocura nazionale contro le morti sul lavoro. Ulteriori iniziative sono discusse dentro l’Inail, un’istituzione non certo priva di mezzi, con un “tesoretto” spesso usato per sostenere le difficoltà finanziarie dei governi.

Chi scrive è però convinto che la leva fondamentale per questa lotta capace di impedire un enorme dispendio di sacrifici umani risieda negli attori stessi dei processi lavorativi. Uomini e donne che ogni giorno affrontano il rischio terribile di finire negli elenchi mortuari e in quelli, non meno terribili, della malattie professionali, degli “incidenti” che deformano i corpi e anche le esistenze. Un popolo - otto milioni di operai - che dovrebbe essere chiamato ad insorgere, a ribellarsi, nelle forme dovute, a contrattare. Riproponendo al primo posto l’antico slogan sindacale «la salute non si vende». E meno che meno la vita. È vero che spesso donne e uomini sono spinti da necessità impellenti, da buste paga assottigliate. Ma nulla vale il prezzo di una vita.Sono riflessioni che nascono spontanee alla visione del bel documentario di Daniele Segre, uno che ha dedicato la propria professionalità alle cause del lavoro. Ora intervistato anche da «Radio Vaticana». Uno che non ritorna sugli schermi perché inseguito dalla moda.

Il suo «Morire di lavoro», quell’incalzante susseguirsi di voci e di storie, dovrebbe essere trasmesso non solo dagli schermi televisivi in ore accettabili, ma anche in tutti i luoghi di lavoro. Perché può risultare un vademecum all’impegno. Perché non parla solo di operai morti, ma soprattutto di operai vivi. Delle loro giornate, del loro amore per il lavoro, della loro “sapienza” profusa per ore e ore. Perché tutto è cambiato, sono intervenuti macchinari moderni, le mansioni si sono moltiplicate e c’è bisogno di un accrescimento continuo dei saperi. Ma Segre ci racconta anche di come vadano spesso letteralmente “a mani nude” nel gorgo di queste attività. Perché non si autotutelano, si liberano spesso - come sanno bene altri operai addetti alla sicurezza - dei mezzi protettivi, per correre dietro ai ritmi voluti dal padrone. Isolati, spesso abbandonati, senza la percezione di avere intorno una società solidale, non trovano il coraggio, la voglia di dire di no.

Quella voglia che Segre cerca di instillare.C’è stato un tempo in cui la scoperta che si può uscire da un destino cinico e baro e ci si può organizzare, aveva investito grandi masse. Lo ha ricordato in un altro bellissimo film Francesca Comencini. Con le sequenze dell’autunno caldo e di quelle masse di giovani meridionali che si ribellavano, appunto, a mamma Fiat.

E davvero hanno stupito per «Fabbrica» le proteste di Raffaele Bonanni, segretario Cisl. È vero, nell’opera della Comencini non c’è la Cisl, come del resto nel film di Segre. Ma non c’è nemmeno la Cgil, salvo una toccante apparizione di Bruno Trentin davanti ai cancelli di Mirafiori nel 1980, intento a convincere i metalmeccanici che gli scioperi ad oltranza non pagano, si vince con altre forme di lotta. E ammoniva: vogliono cancellare una storia di conquiste. Così avvenne.

Certo, non ci sono, nei due film, evidenti sigle sindacali. Ma nella gran parte dei racconti montati da Segre e dalla Comencini c’è tutto il sindacato, c’è la cultura del sindacato nella sua unità. E quei due film servono al sindacato. Così come serve, in questa nostra rapida panoramica, un’antica pellicola restaurata da Guido Albonetti. Parliamo di «Apollon» di Ugo Gregoretti, proiettata sere fa nella sede dell’Arci nazionale a Roma, davanti a una folla appassionata. Un documento prezioso, tradotto in Dvd, la storia di un’eroica battaglia protrattasi per un anno. Altro esempio di come la memoria può servire, dare speranza. Visto che i tempi sono cambiati, tutto è cambiato, ma gli operai rimangono e spesso muoiono.

Infortuni e Malattie Professionali

I PROCESSI CHE SI FANNO E QUELLI CHE NON SI FANNO
di Sergio Bonetto


Alcune recenti vicende hanno molto colpito chi, come me e come tanti altri, da vari decenni, si occupano sia professionalmente che a livello di impegno sociale dei problemi del lavoro.
Mai avrei creduto, se me lo avessero detto 30 anni fa, che il papa e vari cardinali, il presidente della Repubblica e, da ultimo, anche lo stato maggiore di Confindustria si sarebbero pronunciati pubblicamente e con tanta frequenza in difesa delle condizioni materiali dei lavoratori dipendenti, della loro integrità fisica, dei loro redditi, con toni compassionevoli, accorati, che un po’ ricordano i toni di quelle dame di S. Vincenzo che erano tanto “attaccate” ai “loro” poveri. Così attaccate da avere cura di conservarli nella povertà nei secoli.

La prima sensazione, quella di trovarsi di fronte ad una “invasione di campo”, è sbagliata.
Il vuoto di iniziativa politica e sindacale su questi temi è talmente grande che chiunque può avere la tentazione di colmarlo. Chi seriamente assicura, oggi, il presidio del campo?
Prendiamo l’esempio degli infortuni sul lavoro. E’ fortissima la sensazione che la maggior parte di quelli che si pronunciano pubblicamente su questo “fenomeno” lo faccia strumentalmente e sulla base di dati “orecchiati”. A partire dai numeri.

Si continua a parlare di circa 1300 morti sul lavoro l’anno.

Confindustria, normalmente aggiunge che il dato non è molto rappresentativo perché circa il 50% dei casi si riferisce a infortuni in itinere. A volte precisa anche che in non pochi casi si tratta di lavoratori stranieri che operano irregolarmente (“in nero”) nell’edilizia. Così facendo Confindustria tenta di occultare le proprie responsabilità e, conseguentemente, tenta di sottrarsi ad un confronto sulle cose da fare e, soprattutto, sui soldi da spendere per risanare le innumerevoli situazioni di rischio.

Ciò che sorprende è che nessuno degli interlocutori di Confindustria in questa discussione pare essersi accorto dei morti per malattia professionale. Nei “1300” non sono infatti conteggiati tali casi. Ma quanti sono?

La risposta non è agevole. L’Inail, pur nella miriade di dati che fornisce, non indica con chiarezza, anno per anno, i casi di morte nei quali la malattia professionale è intervenuta come causa diretta e unica, o come “concausa”. Sarebbe indispensabile, preliminarmente, richiedere con la dovuta urgenza ed energia all’Inail tale dato. Qualche ipotesi si può tentare. Le denunce di malattia professionale sono circa 26.000 l’anno. All’interno di questo dato stanno, in maggioranza, malattie sicuramente non mortali (ipoacusie ecc). Ma vi sono anche malattie (patologie tumorali, silicosi, asbestosi e patologie respiratorie in generale ecc.) che possono sicuramente essere causa di morte o, comunque, di riduzione della durata di vita attesa. I soli mesoteliomi (patologia indotta dall’amianto e sempre fatale) risultano, sulla base dell’apposito registro nazionale (peraltro anch’esso incompleto), oltre mille l’anno. Circa la metà sono riconosciuti dall’Inail.

Sarebbe indispensabile, per lo meno, che l’Inail fornisse il numero delle rendite ai superstiti, quelle rendite, cioè, che vengono corrisposte al coniuge e, in qualche caso, ai figli, qualora il decesso sia stato riconosciuto come collegato all’attività lavorativa svolta.
Anche questo dato sottostimerebbe il fenomeno, in quanto risulterebbero esclusi tutti quei casi in cui non vi è un coniuge -tecnicamente inteso, esclusi, quindi, i conviventi - superstite, tuttavia sarebbe una prima approssimazione. Oggi l’Inail fornisce solamente l’importo di spesa per tali rendite, dato totalmente inutilizzabile.

Se le cose stanno così, in ogni caso, non è azzardato ritenere che i morti da lavoro siano per lo meno il doppio di quanto si dice: non quattro ma otto al giorno.
Il fatto stesso che di tale dato nessuno paia essersi accorto la dice lunga sulla serietà dell’impegno di chi sta discutendo, con poteri decisionali, di queste questioni. Si può comunque aggiungere che, se si conteggiassero i morti sul lavoro conseguenti a malattia professionale, la posizione di Confindustria risulterebbe immediatamente per quello che è: un tentativo di occultare la realtà.
Le malattie professionali, infatti, sono praticamente tutte figlie di questa industria. E ancora, le malattie sono quasi tutte prevedibili e tendono a reiterarsi per periodi anche lunghi prima che venga predisposto un qualche intervento, e ciò in conseguenza della non immediata percezione sociale del fenomeno.

Esemplare il caso delle malattie da amianto in cui la lunga latenza di determinate patologie - perfettamente conosciute dagli anni ’60 - ha consentito all’industria di “tirare avanti” con la produzione sino agli anni ’90, producendo migliaia di casi mortali. Ancora oggi, a oltre venti anni dalla chiusura degli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, in questa città vi sono 35-40 nuovi casi di mesotelioma ogni anno. E’ un “danno collaterale” dell’industria che gli esperti dicono continuerà per i prossimi venti anni.

In un paese confinante, la Francia, la magistratura ha condannato lo Stato per la sua negligenza nell’affrontare questo problema, non diversamente da come ha fatto la stessa magistratura con riferimento all’uso del “sangue infetto”. Da noi questi processi non si fanno.

Il fatto è che, su queste tematiche, come suol dirsi, “ce n’è per tutti”. Per motivi di lavoro esamino con una certa continuità la contrattazione nazionale e aziendale. Non ricordo di avere visto, negli ultimi quindici anni, contrattazione sugli specifici ambienti di lavoro. Anzi, non conosco piattaforme rivendicative che, magari utilizzando i dati raccolti dai RLS, pretendano cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Sono state prodotte montagne di accordi sui premi di produzione, sugli straordinari e, purtroppo, sulla cassa integrazione, ma della concreta salute dei lavoratori all’interno del concreto stabilimento non si parla mai.

Viene da chiedersi: ma i RLS funzionano? E’ possibile che non rilevino mai preventivamente che le cose non funzionano e che la produzione è potenzialmente o attualmente pericolosa?
Oppure vi è un difetto nella comunicazione tra RLS e organizzazioni sindacali in conseguenza del quale le esigenze di sicurezza non divengono mai piattaforma rivendicativa? Oppure ancora, vi è uno scambio tacito tra imprese e organizzazioni sindacali e il tema della sicurezza viene, di fatto, delegato all’impresa per evitare ripercussioni sul tema, dannatamente bisognoso di intervento, del salario?

Voglio fare un esempio. Nel nostro sistema legale esiste, per l’imprenditore, un obbligo di “rendere edotto” ogni singolo lavoratore dei rischi specifici della lavorazione.
Tale obbligo è largamente evaso. E’ fantascientifico immaginare di renderlo effettivo?
Perché non è possibile immaginare una unità produttiva in cui al singolo lavoratore venga consegnato uno scritto, aggiornato per lo meno ogni sei mesi, in cui siano elencati, con la responsabilità dell’azienda e con formulazioni chiare, i rischi concreti cui è esposto nell’ambiente di lavoro e nella specifica mansione? Perché non è possibile organizzare una formazione obbligatoria, per lo meno di otto ore l’anno, per ogni lavoratore, con la partecipazione, se necessario, dei tecnici di cui all’art 9 dello statuto dei lavoratori, esclusivamente destinata alla sicurezza?

Sono convinto che, se ad ogni lavoratore esposto a rischio cancerogeni, fosse stata fornita adeguata informazione scritta al riguardo, sarebbero morti alcune migliaia di lavoratori in meno.
E invece, per fare il solito esempio dell’amianto, non mi risulta che nessun imprenditore, pubblico o privato, abbia mai anche solo parlato ai lavoratori interessati del rischio cancro.
E, conseguentemente, nessuno abbia mai anche solo accennato, ad esempio, all’effetto sinergico tra amianto e fumo di sigaretta nel carcinoma polmonare. Nel senso che i due agenti congiunti moltiplicano per 150 le probabilità di contrarre la patologia. Quanti morti hanno “sulla coscienza” questi signori?

A sentirli in sede processuale quasi nessuno. In giudizio, quando questo si celebra; combattono come leoni per dimostrare che il lavoratore, con il “fumo voluttuario”, si è creato da solo il problema. Io tenderei ad escludere che, sul piano generale, un lavoratore effettivamente cosciente dei concreti rischi che corre, non faccia nulla, sia a livello rivendicativo che personale per annullare o perlomeno ridurre tale rischio. Il fatto è che tale coscienza manca. I lavoratori in questione non sono stati messi, volontariamente dall’imprenditore , in condizione di porsi il problema. La responsabilità per tale situazione è distribuita su molti. Oltre all’azione del sindacato, risulta assolutamente carente, forse dolosamente carente, l’azione degli organi pubblici destinati ai controlli.

Abbiamo potuto leggere pochi giorni fa che il responsabile dei controlli che si è recato alla Thyssen Krupp pochi mesi prima che si verificasse la mattanza non era mai entrato – lo ha dichiarato lui alla commissione parlamentare di inchiesta - in uno stabilimento di laminazione.
Le indagini condotte successivamente –parlo della indagini svolte tra i lavoratori direttamente da chi si occupa del caso, i risultati di quelle della Procura si conosceranno tra breve- hanno evidenziato una situazione di grave e generalizzato pericolo, conseguente all’assenza pressoché totale di manutenzione preventiva su impianti complessi e di grandi dimensioni fatti funzionare, nell’ultimo anno, da lavoratori sempre meno numerosi e spesso non esperti che operavano, da ultimo, con orari di lavoro protratti oltre ogni ragionevole limite.

Come se ne sono resi conto i lavoratori poteva, o meglio doveva, rendersene conto chi era responsabile dei controlli. O no? Oggi molto si dice circa l’insufficiente numero di ispettori. Il problema esiste, ma non è l’unico. Se è vero che per controllare tutte le imprese con l’organico ispettivo attuale sarebbero necessari circa 30 anni, è anche vero che assai raramente i controlli che vengono effettuati portano a contestazioni di violazioni realmente importanti e, quindi, costose per le imprese. Di ciò abbiamo un riscontro indiretto in sede giudiziaria.

Il nostro sistema penale punisce l’imprenditore per l’omissione o la rimozione delle misure di sicurezza sul lavoro e ciò indipendentemente dal fatto che si verifichi l’evento infortunio o malattia professionale. Anche in una sede giudiziaria come quella torinese, sicuramente la più sensibile, nel nostro paese a queste tematiche, però, la stragrande maggioranza dei procedimenti penali riguarda casi di infortuni a malattie già verificatisi e raramente vi sono procedimenti che anticipano gli eventi mortali o lesivi. Ciò significa che le notizie relative alla pericolosità degli ambienti di lavoro tendono a non affluire alla Procura.

Vi è perciò una responsabilità, per lo meno oggettiva, dei soggetti incaricati dei controlli e, anche se in misura minore, delle organizzazioni sindacali. Chiunque abbia parlato con lavoratori dell’industria sa che i preavvisi alle aziende circa le ispezioni imminenti, le ispezioni “miopi” circa le inadempienze e i rischi gravi e, magari, occhiute circa l’altezza da terra dei lavandini, le ispezioni effettuate o dirette da soggetti che svolgono anche attività privata di consulenza per le imprese non sono una leggenda metropolitana, ma rappresentano la maggioranza degli interventi ispettivi. Se non si affrontano i problemi per quelli che sono difficilmente li si può risolvere.

Agli incaricati delle ispezioni (e ai loro dirigenti) deve essere vietata qualsiasi attività di consulenza per le imprese. Deve essere introdotto l’obbligo per gli ispettori, con relativa sanzione, di ascoltare sempre e riservatamente i RLS e i lavoratori che operano sugli impianti, garantendo l’anonimato di questi ultimi. I responsabili degli uffici devono sempre controfirmare, assumendosene le responsabilità anche penali, i verbali ispettivi.

Deve essere garantita la competenza professionale degli ispettori per giungere ad un utilizzo “mirato” di più soggetti esperti in diverse materie contemporaneamente sulla stessa unità produttiva. Solo assumendo misure di questo tipo ha un senso parlare di ampliamento degli organici delle strutture ispettive, con la speranza di evitare la costruzione di un altro mostro, come talvolta pare essere l’Inail, non in grado di vigilare concretamente sulle condizioni di lavoro malgrado le ampie risorse disponibili.

Da un altro punto di vista la carenza di segnalazioni alla magistratura relativamente alle situazioni di pericolo prima che si verifichino gli infortuni e le malattie professionali introduce un diverso profilo del problema. Le Procure della Repubblica sono sempre tutte sensibili alle tematiche del lavoro e sono tecnicamente attrezzate per affrontare questo tipo di indagine?
A vedere le statistiche parrebbe che l’area torinese sia la più pericolosa per chi lavora.
Solo qui i processi così spesso affrontano il problema dei cancerogeni; solo qui pare esservi stato ad un notevole livello di generalizzazione il fenomeno delle malattie da sforzo ripetuto; solo qui pare essere stata vista la utilità di costituire, in Procura, un gruppo di magistrati specializzati su queste tematiche; solo qui si è sentita la necessità di istituire, per i medici che diagnosticano certi tipi di patologie, un obbligo di segnalazione.

Per usare il solito caso, veramente paradigmatico, dell’amianto:
Perché a Monfalcone malgrado le centinaia di casi di mesotelioma e altre patologie dell’amianto tra i cantieristi – le navi venivano coibentate con centinaia di tonnellate di amianto - la Procura non ha mai concluso un’inchiesta? Perché la Procura di Casale Monferrato ha, per anni, archiviato le denunce dichiarando che “era impossibile individuare i responsabili”?
Perché a Bagnoli, sede di uno stabilimento Eternit, la Procura non si è mai neppure accorta delle malattie professionali e delle morti da amianto?

I motivi di queste carenze sono diversi ma, sicuramente, il risultato è che questi processi non si fanno, le vittime non vengono risarcite, le imprese “risparmiano” miliardi di euro e si diffonde quel senso di impunità che, particolarmente tra i ricchi, è oggi in Italia una sorta di status symbol. Intervenire su questo terreno è sicuramente più difficile che sugli altri.

Il dott. Guariniello ha recentemente proposto la costituzione di un gruppo nazionale, sul modello delle “super procure” anti criminalità organizzata, di magistrati che coordinino e supportino le indagini. La proposta è sicuramente utile: uno (ma non l’unico) dei limiti alle indagini è sicuramente rappresentato dalle difficoltà che incontra il Procuratore di una sede giudiziaria non grande a mettere assieme le risorse tecniche e umane per indagini spesso molto lunghe e complesse che richiedono l’intervento di pool di competenze diverse (medici, epidemiologi, statistici, commercialisti, tecnici della produzione ecc.).

Spesso, inoltre, si rischia che in diverse parti d’Italia vengano avviate indagini analoghe sugli stessi temi con duplicazione di attività assolutamente inutili. La Francia sta sperimentando, mi pare con buoni risultati, per quanto riguarda l’amianto, la costituzione di un unico ufficio di indagini centralizzato a Parigi.

Resta in ogni caso aperto il problema della insufficiente sensibilità di troppe sedi giudiziarie per i problemi della salute dei lavoratori. Magistratura Democratica ha proposto la istituzione di iniziative specifiche di formazione per i magistrati. Anche questa proposta mi pare sicuramente utile. Se, però, gli operai resteranno “invisibili” come soggetto sociale è assai difficile che cresca la sensibilità delle Procure nei loro confronti. Da questo punto di vista solo un impegno continuo di tutte le associazioni sindacali che, ascoltati attentamente i lavoratori, propongano a livello pubblico e quindi anche alla magistratura temi specifici della sicurezza, individuati azienda per azienda, può garantire l’uscita dei lavoratori da questo limbo. Altrimenti dovremo rassegnarci a continuare a vergognarci ogni volta che Montezemolo o il papa affronteranno questi temi.

giovedì 21 febbraio 2008

La memoria ci può aiutare

di Claudio Mellana

Navigando in Internet nei giorni successivi al rogo della Tyssenkrupp mi sono imbattuto in un intervento del prof. Berrino, Direttore del Servizio Epidemiologia all’Istituto Nazionale per lo studio dei tumori, sull’esperienza sindacale italiana nella lotta contro la nocività dell’ambiente di lavoro a partire dal concetto di gruppo operaio omogeneo. Berrino ricorda che il concetto di gruppo omogeneo, inventato da Ivar Oddone, era diventato un cavallo di battaglia delle lotte operaie per la salute negli anni ’60 -’70. C’erano allora tre concetti guida: il gruppo omogeneo, la non delega e la validazione consensuale. Oddone si era accorto che, incontrando i lavoratori, imparava più lui sulle condizioni di lavoro e sul rapporto tra le loro condizioni di lavoro e le loro malattie di quanto lui non fosse in grado né di conoscere prima, né di spiegare ai lavoratori.

Il gruppo omogeneo è un gruppo di lavoratori che si trova ad operare nelle stesse condizioni di lavoro, magari da 20-30-40 anni e che quindi conosce a fondo queste condizioni, tutto quello che è successo ai compagni di lavoro e di che cosa si sono ammalati. E' il lavoratore competente che sa insegnare al medico dove sono i punti critici. Da questa interazione nasce il concetto di non delega, cioè di non delegare al medico la gestione della salute. Il medico deve prima imparare dall'enorme esperienza di vita dell'utente.

Questo spunto mi ha riportato alla memoria la dispensa sindacale “L’ambiente di lavoro”, curata proprio da Ivar Oddone, uscita per la prima volta nel 1969, con la quale FIOM, FIM e UILM tracciarono le linee guida per la contrattazione in fabbrica delle condizioni di lavoro.
La dispensa è stata ristampata nel 2006 a cura dell’INAIL; vale la pena di chiederla per confermare la validità dell’operazione fatta dall’INAIL (scrivendo a: dccomunicazione@inail.it). La dispensa, è già stata da tempo tradotta in tedesco, portoghese, francese, spagnolo e anche in giapponese, autonomamente dalle organizzazioni sindacali dei diversi paesi. Nel 2007 l’esperienza italiana, torinese in particolare, ha suscitato l’interesse dell’Istituto Laboral Andino (http://www.ila.org.pe/), consorzio realizzato da 15 sindacati di 5 paesi (Bolivia, Colombia, Equador, Perù e Venezuela) che in un intervista ha chiesto al prof. Oddone di riassumere cosa sia stata l’esperienza che originò la dispensa sindacale, da quale esigenza nascesse il movimento che la produsse e che cosa ne scaturì.

Oddone chiarisce che “(…) il Italia il movimento operaio ha saputo affrontare in modo gramsciano, cioè con atteggiamento egemonico, il problema della nocività dell’ambiente di lavoro.” Non si è limitato “ (…) a denunciare situazioni di rischio e a delegare chi di dovere ma (ha saputo) farsi carico, nell'ambito delle regole, di contribuire a modificare la nocività dei posti di lavoro con tutta la propria esperienza. L’obbiettivo era quello di creare dei posti di lavoro che permettessero di non avere conseguenze sulla salute e, in prospettiva, di esprimere il massimo delle loro capacità produttive come esseri pensanti. (…) La dispensa ha richiesto un certo numero di anni, cinque come minimo. Da quale esigenza nasceva? dalle situazioni nocività di fatto è ancora più dalla domanda di cambiare la situazione al lavoro in senso ergonomico. L'ergonomia, come approccio scientifico e come disciplina, nasceva in quegli anni in Europa e in America. Il riferimento: "adattare il lavoro all'uomo".

Il movimento sindacale italiano ha scritto nella storia un capitolo che nessun altro paese ha saputo scrivere in termini di lotta per adattare all'uomo che lavora il suo posto di lavoro.(…) Io avevo delle conoscenze mediche, loro avevano delle conoscenze che permettevano di" “indovare” (individuare il dove “unico”, il contesto concreto) i rapporti fra la situazione produttiva e la situazione di salute. (…) Lo scambio avveniva in molti modi. Il problema fondamentale che si pose allora: comunicare fra un medico e dei lavoratori a proposito della situazione di lavoro e delle malattie che ne potevano derivare. (…) abbiamo dovuto prendere atto che i problemi che avevamo di fronte non erano comprensibili né con il linguaggio medico, né con il linguaggio operaio sindacale allora attuali. Dovevamo costruirne uno nuovo che potesse servire come interfaccia fra la rappresentazione della condizione di lavoro da parte degli operai e la conoscenza della comunità scientifica medica, che astraeva dai posti di lavoro concreti, perché non li conosceva. Abbiamo (inventato) la tecnica delle "istruzioni al sosia". Si trattava di dare le istruzioni su quello che si faceva rispondendo alla domanda: "fa' conto che io sia il tuo sosia, immagina che io debba sostituirti nel tuo lavoro in modo che non ci si accorga che non sei tu". Abbiamo costruito così gli elementi essenziali della dispensa".

La dispensa è stata testata attraverso anni di formazione alla scuola sindacale, la quale ha svolto la funzione essenziale di creare il linguaggio comune a tutta la classe operaia per discutere e contrattare la trasformazione del posto di lavoro. Che cosa è scaturito dall'uso della dispensa è rappresentato dal materiale del CRD (Centro Ricerche e Documentazione rischi e danni da lavoro). Questo materiale è (…) ancora tutto da elaborare, soprattutto in funzione dell'utilizzazione che può essere fatta per approntare degli strumenti che permettano ai giovani di utilizzare, nell'ambito delle loro esigenze, l’ esperienza legata alle lotte per migliorare l'ambiente di lavoro in Italia.

Se in un prossimo futuro questo materiale fosse disponibile on-line, ciò significherà continuare, ed in condizioni migliori il lavoro di scambio fra lavoratori ed esperti dell'organizzazione del lavoro di tutto il mondo, in tempo reale. Fra gli altri, i medici, non solo del lavoro ma anche di base gli unici che hanno la possibilità di considerare dal punto di vista medico l'uomo nella sua totalità e nella sua quotidianità.
La domanda essenziale (…) pone il problema generale a tutti, compresa la comunità scientifica, non solo ai lavoratori, di quale sia la rappresentazione scientifica valida delle malattie professionali che io definisco come le malattie sicuramente eliminabili. L’intervista termina con la manifesta convinzione “(…) che le situazioni lavorative concrete ben note agli operai interessati, fanno parte essenziale delle conoscenze scientifiche.”

Uno dei contributi più rilevanti e innovativi allo sviluppo della società italiana espresso dal sindacato è stata la cultura della prevenzione dei rischi e della partecipazione dei lavoratori alla salvaguardia della loro salute. Ciò ha determinato cambiamenti epocali nella tutela del lavoro e un profondo rinnovamento nel sistema sanitario. Una rivoluzione culturale che ebbe il suo apice nelle lotte a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70, concretizzata poi in specifiche conquiste contrattuali e legislative (come l’articolo 9 dello Statuto, relativo al diritto dei lavoratori a partecipare alla prevenzione in azienda), fino a influenzare fortemente la legge istitutiva (1978) del SSN.

Non varrebbe la pena di utilizzare l’orgoglio della partecipazione, non solo presente nella non delega ma anche in un seminario delle 150 ore degli anni settanta nel quale gli operai più attivi della Mirafiori hanno saputo concludere in modo unanime che fra la Fiat Mirafiori, il Comune di Torino e USL la situazione più produttiva e democratica era quella di Mirafiori perché quello che definisce la democrazia è l’uomo col suo impegno e la sua esperienza?

Non varrebbe la pena di documentarci per una “restituzione” su tutto quello che all’estero è già derivato da una esperienza nata alla Mirafiori, a Torino, (che ha significato quello che durante le celebrazioni del centenario della CGIL è stato riconosciuto), che ha prodotto per esportazione da parte nostra, in ambienti più adatti, l’integrazione con altre esperienze, in particolare in Francia ed oggi per iniziative reciproche in America Latina e forse altrove?

Per ricuperare tutto quello che è stato fatto in Italia . In primo luogo mettendo on line tutto il materiale che l’ISPELS ha ricevuto dal CRD (Centro Raccolta e Documentazione) rispetto alle lotte operaie sull’ambiente.
Per conoscere quello che a partire dal modello italiano è stato fatto all’estero integrandosi con un ambiente più adatto.
Per costruire attorno al SSN una cultura di partecipazione di fatto, attiva come quella sull’ambiente di lavoro negli anni sessanta.

giovedì 14 febbraio 2008

La giornata dei caduti sul lavoro

di Giorgio Nebbia

Immaginate una guerra durante la quale, nel mondo, ogni anno, 340.000 persone muoiono subito e un altro milione muore per le ferite, le mutilazioni, le lesioni e le malattie riportate, e in cui 160 milioni di persone soffrono per malattie dovute a eventi degli anni precedenti; una guerra che non risparmia donne e bambini i quali, anzi, sono maggiormente esposti e colpiti. Questa guerra è in corso, continuamente, e le persone di cui parlo sono operai e contadini, guidatori di treni o navi o camion, fabbricano automobili o edifici o scavano carbone nelle miniere e pietre nelle cave. Di questi morti e feriti non esistono neanche statistiche esatte perché molti sono lavoratori non protetti, non registrati dalle agenzie delle Nazioni unite o dei singoli governi. Spesso le morti o le malattie privano una famiglia dell’unica fonte di reddito.

Nel 1989 in Canada fu deciso di dedicare un giorno, il 28 aprile di ogni anno, alla memoria dei caduti sul lavoro. Secondo il pensiero corrente sarebbe finita l’esistenza della “classe operaia”; si dedica molta attenzione all’ecologia e alla difesa della natura e dell’ambiente che sono intorno a noi. Si finisce però per dimenticare che la prima ecologia si ha nell’ambiente di lavoro dove un enorme numero di persone, alcuni miliardi nel mondo, vengono ogni giorno a contatto con le mani e col corpo con sostanze tossiche, operano in condizioni di pericolo, sono esposti a rumori e anche a nuove forme di nocività come le radiazioni delle apparecchiature elettriche ed elettroniche. Queste persone, spesso a rischio della vita e della salute, permettono a ciascuno di noi, di muoverci, di scaldarci, di avere ogni giorno nei negozi gli scaffali pieni delle merci che desideriamo.

Solo in Italia ogni anno i morti sul lavoro sono 1400 e gli incidenti sul lavoro circa un milione. Ma questi numeri sono ingannevoli perché vengono contabilizzati solo coloro che muoiono direttamente o in breve tempo dopo l’incidente; molti altri muoiono a mesi o anni di distanza per le conseguenze dell’assorbimento, durante il lavoro, di polveri o sostanze tossiche o cancerogene. Ne sappiamo qualcosa a Bari dove continuamente si allunga la serie dei morti fra gli operai che hanno maneggiato l’amianto, una delle perverse sostanze cancerogene che da oltre mezzo secolo sono presenti intorno a noi, un lento veleno che proviene dagli isolamenti termici e acustici, da tubazioni, recipienti e tettoie di amianto-cemento, dai freni degli autoveicoli.

Purtroppo, nel gran chiasso di informazioni che ci circonda, anche quest’anno il 28 aprile, giornata mondiale dei caduti sul lavoro, è passata quasi inosservata. L’unica importante manifestazione si è avuta a Torino ed è stata dedicata alle vittime dell’amianto. Il Piemonte è stato scelto perché vi si trovano la grande cava di amianto di Balangero, lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato, la tessitura di fibre di amianto di Grugliasco, fabbriche che, nei molti decenni della loro esistenza, prima della definitiva chiusura, si sono lasciate dietro innumerevoli morti e malati, donne e uomini. Alla manifestazione di Torino hanno partecipato rappresentanti di tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’amianto, a Bari e in tante altre città, e di quelli che sono ancora esposti all’amianto nelle operazioni di rimozione, eliminazione e smaltimento di manufatti contenenti le pericolose fibre.

L’amianto è solo una delle molte nocività presenti nell’ambiente di lavoro; da decenni le organizzazioni dei lavoratori si battono per eliminarle; nei paesi europei solo dopo lunghe e dure lotte, dopo varie inchieste parlamentari, sono state ottenute delle leggi (in Italia la “”seicentoventisei” del 1994) che migliorano (che dovrebbero migliorare) le condizioni di lavoro e diminuire i pericoli. L’associazione “Ambiente e Lavoro”, con sede a Milano, è una delle poche che parlano di “ecologia” del posto di lavoro e diffondono fra i lavoratori informazioni sui pericoli da cui sono circondati e a cui sono esposti, spesso senza saperlo. Ci sono voluti anni per eliminare i più tossici fra i solventi clorurati impiegati nelle lavanderie “a secco”, o il benzene nelle colle impiegate nella produzione di scarpe, o per imporre le maschere di protezione per gli addetti alla verniciatura a spruzzo. Spesso le norme non sono osservate perché rallentano il lavoro o impongono maggiori costi; purtroppo spesso il pericolo “non si vede” e non si sente e i tumori o le malattie si fanno sentire a molti anni di distanza, come si è visto nel caso dell’intossicazione da cloruro di vinile o dagli altri silenziosi veleni, tanto che è difficile, anche a fini di assicurazioni e risarcimenti e responsabilità dei datori di lavoro, riconoscerli come la vera causa di molte morti. Veleni mutevoli nel tempo in seguito a “innovazioni” tecniche, all’uso di nuove materie prime, alla diffusione di nuove attività, come quelle che hanno a che fare con lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali, anch’essi di composizione mutevole a seconda della provenienza. Nelle stesse università e nei centri di ricerca ci sarebbe moltissimo da fare, per chimici, ingegneri, medici, merceologi, per aiutare i lavoratori a conoscere le sostanze pericolose con cui vengono a contatto.
I morti sul lavoro meritano al più qualche frettolosa riga nella cronaca dei giornali. Mi piacerebbe che i loro funerali ricevessero qualche pubblico tributo, dal momento che si tratta di persone che hanno dato la vita per assicurare una frazione del benessere di cui ciascuno di noi gode. Mi piacerebbe che qualche città dedicasse una strada, o magari una piazzetta, ai “Caduti sul lavoro” (*) e che di loro si parlasse nelle scuole, dal momento che i ragazzi di oggi sono pure i lavoratori di domani.

(*) In realtà, per fortuna, alcune città hanno già una via o piazza intestata ai “Caduti sul lavoro”: Andria, Brescia, Bussolengo (VR), Capranica, Casalgrande (RE), Caserta, Catanzaro, Celleno, Imola, Modena, Molfetta, Palermo, Pescara, Prato, Ravenna, Scandicci, Senigallia, Sesto Fiorentino, Sesto San Giovanni, Torino, Tricase (LE), Trieste, Velletri, Vercelli, e spero altre ancora e spero che aumentino.

domenica 10 febbraio 2008

il SIC: una esperienza realizzata

di Ivar Oddone

Un progetto, realizzato, di un sistema ergonomico della salute

Vent'anni fa ho risposto ad una domanda di un gruppo dirigente di una Società di Mutuo Soccorso avviando un progetto pilota per la trasformazione di una organizzazione sanitaria volontaria, a base territoriale, nella zona delle Bouches du Rhône (vicino a Marsiglia).
Obbiettivo: una ricerca di psicologia dell'organizzazione della salute, su base ergonomica.
Il risultato di questa ricerca: un progetto di organizzazione della salute il Sistema Informativo Concreto (SIC) e la sua realizzazione. Si è trattato di un lavoro di azione-ricerca più che di ricerca-azione. Il rapporto tra azione e ricerca è stato il motore inferenziale. Infatti l'obbiettivo dell'intervento era quello di realizzare una organizzazione della salute che permettesse di eliminare le malattie sicuramente eliminabili, quelle dovute all'ambiente costruito.

La dinamica prevista:

  • definire dei rischi prioritari, considerati indici prioritari della salute;
  • creare un percorso dell’informazione sulla salute individuale ;
  • assemblare le informazioni individuali per ottenere una rappresentazione della salute collettiva;
  • informatizzare il sistema;
  • diffondere i risultati come terminali di un servizio mirato, strutturato in modo da permettere alla comunità municipale di valutare l'organizzazione della salute e modificarla di conseguenza.

L'ambiente di sviluppo: un "Centre de santé" gestito da una organizzazione di mutuo soccorso. Un poliambulatorio che può essere considerato privato in quanto gestisce la salute (per le esigenze non ospedaliere) degli aderenti alla società di mutuo soccorso, con una organizzazione autonoma, con segretarie, medici generalisti, medici specialisti, laboratori. Garantisce in altre parole il servizio che in Italia è garantito dal medico di base, più i servizi specialistici usuali: laboratorio di analisi, radiologia, ecografia, elettrocardiografia, pneumologia, neurologia, angiolologia fra gli altri.

Ogni cittadino, che ha il diritto di usare quel poliambulatorio in quanto è volontariamente iscritto a quella società di mutuo soccorso, può prenotare telefonicamente una visita dal suo medico curante. In caso di urgenza può recarsi direttamente all'ambulatorio, utilizzando i medici generalisti presenti. Ogni medico generalista svolge il suo lavoro in condizioni particolari di tempo, di possibilità di esami, di servizio paramedico e di attrezzature. Si può dire che sono condizioni ottimali per l'espletazione delle sue funzioni di medico generalista, di famiglia.

Nell'ambito di questa attività usuale, il SIC rappresenta una attività integrata con quella usuale del medico generalista. Nello svolgimento del suo lavoro il medico segnala, sulla base delle regole instaurate nel sistema, i casi che considera a rischio dal punto di vista dell'ambiente (di vita e/o di lavoro). Questa segnalazione dà origine alla creazione di un percorso speciale che definisce il trattamento delle informazioni del SIC. La segnalazione del medico, che può essere sostituita dalla segnalazione dello stesso soggetto che vuole sapere se la sua salute è a rischio dal punto di vista dell'ambiente, dà origine alla creazione di un elenco di soggetti "a rischio presunto".

Quando un cliente si reca all'ambulatorio per una visita usuale, se esiste, per lui, la segnalazione di una situazione di "rischio presunto", si avvia il ciclo che è segnato dal percorso: medico, segretaria, mappizzatore, medico. Un percorso che l'informazione, considerata centrale nel sistema, traccia e che lo psicologo della salute guida, dal punto di vista procedurale. Chi lo gestisce, dal punto di vista operativo, attraverso gli uomini coinvolti, in particolare i medici generalisti, è una figura nuova nell'organizzazione della salute, il "mappizzatore". E' il gestore di un intervento di ergonomia cognitiva, controllato dallo psicologo, mirato a ricuperare l'esperienza dei soggetti coinvolti, in particolare le conoscenze del cliente sul suo microambiente di vita e di lavoro. Interessa anche il ricupero dell'esperienza procedurale degli operatori coinvolti nell'azione-ricerca.

Un cambiamento di natura ergonomica nella organizzazione

Il ciclo comporta: dopo la segnalazione del medico, che ha dato origine al percorso, l'intervista di una segretaria, la quale compila adeguatamente la scheda individuale di rischio e la scheda del posto di lavoro. Per raccogliere le informazioni necessarie segue una procedura definita, periodicamente verificata dallo psicologo insieme agli operatori interessati.

La procedura utilizza il modello dei quattro gruppi di fattori nocivi e le informazioni già accumulate nel "catasto" dei posti di lavoro a rischio del SIC.

La scheda individuale di rischio, informatizzata, è composta da quattro aree:

  1. la prima permette di identificare il soggetto (il nome è visibile solo per il medico curante);
  2. una seconda identifica il posto di lavoro ed i rischi eventuali da esposizione;
  3. una terza precisa i rischi di malattia ed i danni eventualmente presenti. Queste tre parti sono rigidamente codificate;
  4. mentre una quarta parte, definita foglio di accompagnamento, contiene in chiaro tutte le informazioni (non sistemate, secondo i codici, nelle altre aree) sul soggetto e sulle condizioni di rischio, che si può presumere possano essere di qualche interesse.

Lo scopo è quello di agevolare una osservazione, registrata, "aperta", ossia non definita a priori dalla codificazione. La scheda del posto di lavoro rappresenta la base dell'anamnesi ambientale, concreta, utilizzabile per stabilire un eventuale nesso tra danno ed ambiente. Il posto di lavoro viene identificato attraverso tre elementi: il "2x2", il "C.Q.F." e la "specificità locale";

  1. il "2m x 2m" definisce il contesto spaziale concreto nel quale un soggetto lavora (per un singolo soggetto può essere più d'uno);
  2. il "C.Q.F." (ce qu'il fait) è quello che il soggetto fa veramente sul lavoro (la mansione adeguatamente connotata);
  3. la "specificità locale" identifica se l'attività lavorativa, il processo, ha delle caratteristiche specifiche, in positivo o in negativo, per quanto riguarda il rischio rispetto alle attività lavorative dello stesso tipo.

La valutazione del rischio e/o del danno alla salute dell'individuo, quindi degli esami necessari, del significato dei risultati, sino alla eventuale dichiarazione della malattia professionale, è di competenza del medico.

Il mappizzatore costruisce il "catasto" dei posti di lavoro a rischio. Dal suo compito specifico di produrre le mappe di rischio deriva il termine che lo qualifica professionalmente. Le mappe sono costruite dal basso, per apposizione, ogni nuovo caso si aggiunge a quelli già conosciuti. Le mappe sono utilizzate, assieme a parte del materiale delle schede individuali, per la costruzione di un Panneau Communal de Risque (Tabellone Comunale di Rischio) che è composto da:

  1. una carta topografica del Comune, con notazione (cerchiatura) dei luoghi a rischio + quattro colonne relative ai rischi prioritari:
  2. elenco numerico delle persone a rischio per ciascuno dei rischi prioritari (stima);
  3. un elenco numerico delle persone a rischio (conoscenza documentata nel SIC);
  4. elenco numerico dei danneggiati (stima);
  5. elenco numerico dei danneggiati (conoscenza documentata nel SIC).

Il Tabellone Comunale di Rischio va aggiornato periodicamente ed utilizzato dai tre protagonisti del Sistema di Informazione Concreto: i cittadini, i medici ed il sindaco. Rappresenta uno dei due poli (l'altro è rappresentato dalle schede individuali) di un sistema ergonomico con una forte possibilità di funzione cibernetica in quanto le informazioni rendono possibile il controllo del territorio per verificare il miglioramento della salute, cui il sistema tende.

mercoledì 6 febbraio 2008

Diamoci tutti da fare

di Claudio Mellana

Ci sono tragedie che sono più tragedie di altre? Che sono capaci di scuotere la coscienza collettiva e altre che non turbano l’apatia collettiva? La tragedia del 6 dicembre 2007 dei sette morti alla TyssenKrupp ha, speriamo, dato il via ad un nuova stagione di impegno da parte di tutti sul fronte della difesa della vita sui luoghi di lavoro, cosa che non era accaduta dopo il 16 luglio 2007 giorno della analoga tragedia del Molino Cordero di Fossano che ha causato cinque morti.

Varrà la pena di studiare a fondo il fenomeno, verrebbe da dire a partire dai mezzi di informazione che indubbiamente giocano un ruolo importante nell’orientare l’opinione pubblica. Ma sarebbe estremamente riduttivo. Ma se l’iniziativa la prendessero l’insieme delle istituzioni per collaborare a formare cittadini maggiormente orientati alle cose importanti e meno curiosi delle inutili, se non per gli interessati, vicende sentimentali di Sarkosy e Carla Bruni?

Come? Ecco due proposte:
  1. Venga reso obbligatorio a scuola lo studio della 626 a partire dai motivi ideali, perché tali sono, che stanno alla base della sua promanazione. Si coinvolga su un progetto educativo serio quanti più attori possibili (Aziende sanitarie, INAIL, Sindacati e Unione Industriale, ANMIL, ecc.). Obbligatorio significa che alla fine dello studio deve esserci un voto, altrimenti il tutto si trasforma in farsa.
  2. Riprendo un’idea di Ivar Oddone e la adatto; i Comuni, a partire da quelli con una popolazione lavorativa molto significativa, installino in una piazza centrale un tabellone (oggi con l’elettronica si può fare molto bene) sul quale compaia il numero dei morti e dei feriti sul lavoro giorno per giorno e poi, con il passare del tempo, si faccia comparire il raffronto anno per anno, cosicché tutti possano sapere se si sta facendo qualcosa di utile per ridurre il fenomeno. Saranno così i Sindaci in prima persona a controllare e ad esigere che si attuino politiche specifiche e generali utili a tutelare la salute dei loro cittadini sui luoghi di lavoro.

Il nostro Presidente della Repubblica, on. Napolitano, che ha grande merito rispetto al risveglio delle coscienze in questa materia, potrebbe dare un premio al primo Comune che dovesse attuare la proposta.

martedì 5 febbraio 2008

Non solo Tecnologia = il Catasto Ambientale

di Ivar Oddone

Che cosa è cambiato in questi ultimi 20 anni rispetto all'innovazione tecnologica nell'ambito della medicina, in particolare della medicina ambientale? Per un certo verso è superfluo sottolineare che gli strumenti, le tecnologie capaci di indagare sulla situazione dell'atmosfera, delle acque, del terreno e della normalità degli essere viventi per definire la situazione di rischio, sono oggi quantitativamente e qualitativamente molto più avanzati di 20 anni fa.

Una risposta indiretta in termini di sistema è però rappresentata dalla realizzazione più nota, essenziale, emblematica che coincide con la constatazione che si può bloccare il traffico delle auto private in una città a piacimento della Giunta Municipale o di quella Regionale. Anzi il Ministro dell'Ambiente, anche questa è una novità rispetto a 10 anni fa, minaccia sanzioni nei confronti degli amministratori locali che non faranno il loro dovere. Questo esempio dimostra come il problema dell'ambiente o meglio della difesa della salute rispetto alle aggressioni ambientali sia molto cresciuto nella sua importanza.

Trattare questo aspetto della "nuova situazione" potrebbe essere oggetto di una ricerca sicuramente valida. Io preferisco, o meglio considero che sia pregiudiziale, una considerazione storica. Infatti tentare di valutare che cosa ci sia di nuovo oggi; rispetto a 20 anni fa non può non basarsi su un tentativo di confronto tra le due situazioni.

La situazione di 20 anni fa era caratterizzata, dalla forte presenza del problema della difesa dall'ambiente all'interno della fabbrica. Non era soltanto una posizione della classe operaia, ma anche di tutta una serie di tecnici, che dai tecnici della salute, gli psicologi in particolare, si era andata allargando fino a coinvolgere i magistrati. Le argomentazioni in favore delle problematiche ambientali al di fuori della fabbrica sono nate dopo e vennero usate contro questa posizione che poneva al centro della lotta ambientale i luoghi di lavoro e non come una conseguenza e/o un di più aggravante....

Si andava ripetendo che i problemi delle piaghe sociali: gli infortuni stradali, gli infortuni casalinghi, l'alcoolismo, i danni da fumo, il diabete, le nevrosi, i tumori avevano un'importanza rilevante, anzi erano decisamente i problemi dell'ambiente da considerare come problemi prioritari.

Un secondo elemento che caratterizzava la situazione di 20 anni fa, era dato dal superamento dei due riferimenti sinora fondamentali ed unici per il controllo dell'ambiente: le leggi e i rappresentanti del potere legale da una parte e i padroni dei luoghi di produzione dall'altra. Questo superamento era rappresentato dal fatto che un terzo incomodo si era affacciato dalla scena politica ed era rappresentato da coloro che direttamente subivano le aggressioni dell'ambiente derivandone delle alterazioni della propria salute: gli operai e i produttori in genere. Questi attraverso i sindacati.... Da quella situazione è derivato un grande movimento che ha sicuramente improntato la riforma sanitaria dal punto di vista non solo delle leggi ma anche dello spirito in base al quale quelle leggi potevano essere lette, utilizzate.
Oggi la situazione è, sul piano degli attori, tornata ad essere quella di 20 anni fa. Sono di nuovo le leggi e i rappresentanti legali del potere a costituire insieme ai proprietari dei luoghi di lavoro gli elementi determinanti dell'intervento sull'ambiente.

Il terzo incomodo di allora non è più di scena. A sostituirlo sono comparsi dei movimenti politici: i verdi, gli ambientalisti, gli ecologisti, rappresentati d'altra parte ormai in tutti gli schieramenti politici.

Il confronto fra ieri ed oggi porta a considerare come elemento di notevole interesse la considerazione, o meglio la concezione dell'uomo che va difeso di fronte ai rischi ambientali.

Tornando al problema delle targhe alterne e/o del blocco totale del traffico delle auto private, non si può non tener conto del fatto che si impone ai cittadini di fermarsi, cioè di non utilizzare i propri mezzi personali di trasporto, che pure sono diventati un segno del benessere dello stato sociale dei cittadini, senza coinvolgerli, neanche spiegando quali sono i criteri in base ai quali si impone a chi non ha almeno due macchine "a targa alterna" di usare i mezzi pubblici.

Tornando a 20 anni fa un altro elemento di differenziazione balza agli occhi. Allora la classe operaia chiedeva di conoscere quali erano i danni recati dall'ambiente di lavoro, quali erano i fattori che venivano chiamati in causa, quale era la loro concentrazione, quali i massimi accettabili di concentrazione che non dovevano essere superati per garantire dal rischio ambientale.

Oggi tutto quello che rappresentava il coinvolgimento dei soggetti esposti a rischio ambientale non è assolutamente presente. È certamente sicuro, al di là di ogni necessità di ricerca, che la stragrande maggioranza dei cittadini compresi i consiglieri comunali, regionali e forse in parte anche gli stessi assessori ignorano quali sono i rischi relativi alla salute dovuti al traffico, quali sono i fattori che vengono tenuto sotto controllo e da cui derivano le delibere, le ingiunzioni di arresto del traffico e i risultati positivi che da queste misure discendono. Soprattutto ignorano che cosa rappresentino questi rischi nell'insieme dei rischi dovuti all'ambiente che minacciano i cittadini.

La differenza quindi tra 20 anni fa ed oggi crea delle perplessità soprattutto pone come quesito fondamentale quello di dove stiamo andando oggi in Italia. E' solo un crollo dei politici, del politichese, o è anche e soprattutto un crollo, o meglio un cambiamento di paradigma nella politica come arte di governo della cosa pubblica in particolare del controllo del nostro mondo, del nostro ambiente?

Le riflessioni che sono suggerite dal contesto sono molte. In primo luogo il mondo nell'accezione concreta, cioè l'insieme della comunità mondiale si trova di fronte a dei problemi che, come qualcuno sostiene, non sono più problemi politici ma problemi di policy. E' una questione gergale perché viene spiegato oggi che i problemi di policy sono problemi collettivi, cioè riguardanti un gran numero di persone, di difficile soluzione; problemi che in genere coinvolgono conflitti tra obiettivi diversi; che hanno significative componenti "umane", nel senso che toccano i comportamenti e gli atteggiamenti sociali in genere; ci si limita ad aspettare che si risolvano spontaneamente, "con il tempo", comportano costi di varia natura.

I cosiddetti problemi di policy non sono altro che dei problemi fondamentali di "invarianti" storicamente determinate nel senso che assumono forme particolari in rapporto alla storia e alla geografia. Uno di questi è rappresentato dalla centralità degli uomini concreti con nome e cognome. Non si tratta solo di affermare che la salute non è soltanto mancanza di infermità e/o di malattia, ma benessere completo psico-fisico, né tantomeno di sottolineare che l'ambiente deve essere a misura d'uomo. I problemi sono rappresentati dal fatto che la rappresentanza dell'uomo, a misura del quale bisogna costruire l'ambiente e valutare lo stato di salute, può essere o delegati ai tecnici più o meno illuminati, oppure può essere affrontata in modo concreto con gli uomini reali.

In questo confronto l'approccio scientifico (non soltanto psicologico) che non risolve immediatamente il problema dell'informazione reale e della democrazia reale ma lo apre e cerca una soluzione tecnologica e sociale da tendere al limite, rispetto alla ricerca del meglio, è il dato fondamentale.

Ieri, venti anni fa, il rapporto fra i tecnici, la comunità scientifica e gli uomini reali, concreti, era pensato in rapporto al gruppo operaio omogeneo attraverso la non delega, attraverso la costruzione di categorie comuni, cioè i quattro gruppi di fattori, attraverso l'identificazione di procedure capaci di garantire il riconoscimento di due modi di conoscere il mondo: la verifica della validità di questo approccio doveva essere garantita dall'esistenza di registri dei dati ambientali e dei registri dei dati bio-statistici.

Oggi, di tutto questo, esistono delle tracce nello stato di cose (nello Stato Italiano e non solo in quello). Queste tracce sono in parte dei ricordi, delle reminiscenze e per, forse per molti, dei ricordi da dimenticare. In parte queste tracce sopravvivono in forma "coperta" ma rappresentano dei riferimenti per continuare, in situazioni particolari, in ambienti diversi, a combattere la battaglia per il controllo dell'ambiente a favore comunque degli uomini. In parte la situazione di allora è andata trasformandosi e ha determinato risultati strumentali, progettuali complessi anche attraverso alla utilizzazione delle moderne tecnologie.

Tornando al problema dell'utilizzazione delle moderne tecnologie è l'elemento centrale della nostra riflessione. Come ci chiedevamo all'inizio non esiste una risposta univoca. Le tracce di quello che caratterizzava la situazione di 20 anni fa, ha prodotto essenzialmente due tipi di risposte. Il primo è rappresentato dal "riassorbimento" delle posizioni della comunità scientifica nell'ambito dello spirito della comunità scientifica dominante, quella nord-americana. Lo spirito, l'approccio culturale della comunità scientifica americana è però cambiato in peggio secondo me ed è rappresentato essenzialmente dal passaggio dalla cibernetica all'informatica.

Che cosa ha significato il superamento della concezione cibernetica di Wiener? La cibernetica che si caratterizza come scienza che studia le informazioni e il controllo delle informazioni ha preso il suo nome dal "timoniere" (in greco "Chibernetic"). L'informatica che è figlia della cibernetica ha tralasciato l'elemento fondamentale: l'importanza del timoniere cioè del controllo della rotta. Ma ha soprattutto dimenticato che nello schema della teoria dei sistemi che si autoregolano il feed-back sociale è rappresentato essenzialmente dalle risposte degli empirici.

La contraddizione fra la crescita smisurata delle informazioni disponibili e la possibilità di controllarle a livello di collettività e tanto più a livello di individui o di piccoli gruppi, ha visto nell'era dei calcolatori la prospettiva delle banche dati complete capaci di dare il minimo dettaglio della situazione ambientale in tempo reale.

La stessa disciplina, quella che studia le prospettive della tecnologia dei calcolatori, ha individuato un limite, o meglio un elemento di correzione di rotta in due elementi di riferimento: il primo è rappresentato dall'intelligenza artificiale e ancora di più nel modello dell'uomo automa. Il riferimento agli elementi strategici dello sviluppo dell'intelligenza artificiale cui ci interessa far riferimento è essenziale perché riconduce alla supremazia della cibernetica sull'informatica cioè del controllo delle informazioni rispetto ad uno scopo che non può non essere il riferimento della politica.

Al di là delle definizioni, la politica nel suo significato originario è l'arte di governo della città e l'arte di governo della città non può non essere l'arte di scegliere i problemi prioritari e riconoscere per questi le soluzioni più adeguate e, su questa base costruire un sistema operativo di riferimento che permetta di riconfermare la validità delle scelte (priorità e sistema operativo).

E' evidente quindi che non possiamo non chiederci oggi se i principali pericoli di fronte ai quali noi dobbiamo usare tutte le risorse, tutte le possibilità di intervento dell'autorità siano il monossido di carbonio (il vecchio ossido di carbonio che avvelenava gli incauti che lasciavano accesa la stufa a carbone in condizioni di aereazione insufficiente) e il protossido o biossido di azoto.
Ben più ampio è l'arco dei fattori o meglio delle situazioni che rappresentano rischio in una città. Basta l'elenco delle malattie professionali riconosciute. L'elenco di queste situazioni di rischio è alla portata di ogni cittadino:
  1. i rischi dovuti al metabolismo umano che pongono il problema delle fognature come un problema essenziale per la sopravvivenza delle comunità;
  2. il problema del metabolismo degli animali casalinghi;
  3. il problema del riscaldamento che vale ovviamente per le popolazioni della zona temperata e ancora più delle zone nordiche e polari;
  4. il problema dei rischi derivanti dalla circolazione delle automobili private (non vengono considerate le automobili e i mezzi di trasporto pubblici perché considerati in un'altra categoria);
  5. la pontelle (le attività e i rifiuti domestici);
  6. tutte le attività economiche organizzate sia pubbliche che private (per intenderci quelle che sono contenute nell'elenco della Camera di Commercio e che devono essere autorizzate e controllate quasi tutte dal Municipio);
  7. tutto quello che può essere ricondotto al capitolo del Drugs & Food (droghe e alimenti);
  8. i grandi eventi eccezionali naturali e non (esplosioni di depositi, terremoti ecc...).

Secondo Wiener la fabbrica, come la società utilizzano solo un milionesimo delle possibilità umane perché sono sistemi che non utilizzano la retroazione (l'esperienza).

E' assolutamente evidente per qualsiasi cittadino che i due fattori di rischio su cui si centra tutta l'attenzione del sistema nazionale rappresentano due riferimenti che si possono definire ridicoli.
Se si riprende il vecchio percorso strategico di venti anni fa, usato con estrema efficacia in molte fabbriche da parte degli interessati, cioè gli operai, noi ci troviamo di fronte alla necessità di incominciare a definire quali sono i rischi più gravi e/o frequenti che si manifestano sotto forma di danno alla salute e quindi riscontrabili e, in particolare, attraverso l'intervento dei medici.

Sulla base di questi rischi di danno la individuazione dei fattori e/o delle situazioni che causano questi danni, rappresenterebbe un obiettivo discreto raggiungibile sulla scorta delle ricchissime informazioni relative alle conoscenze tecnologiche e mediche e alle loro utilizzazioni nella giurisdizione (diversa da paese a paese).
Il mondo in cui viviamo ci offre una notevole ricchezza di esperti capaci di selezionare all'interno della grande quantità di informazioni, le informazioni necessarie ai cittadini.
Sempre sulla base del vecchio schema i fattori considerati come prioritari devono essere controllati (sottoposti a monitoraggio come si dice oggi) indicando quali sono i massimi accettabili di concentrazione.

Si tratterebbe di costruire un sistema capace di autoregolarsi. Qualcuno potrebbe sottolineare che è appunto questa la struttura dell'auto-regolazione che si è venuta realizzando e che si esprime nel blocco parziale o totale della circolazione. Il modello di sistema manca però dell'elemento essenziale cioè l'indicazione (e la possibilità di verifica) dei danni che si vogliono evitare. Inoltre non è stato dibattuto il problema dei rischi prioritari e di conseguenza si sono scelti dei fattori di tipo generico (ossido di carbonio e ossidi di azoto), che possono permettere di esercitare l'autorità in favore dei cittadini (anche se ci sono molti errori non si può non approvare l'uso dell'autorità per proteggere la salute della gente), ma gli altri fattori di inquinamento ad es. quelli a cui sono imputabili tumori, sordità, bronchiti croniche, asbestosi, silicosi, sono stati esclusi dall'autoregolazione del sistema.

In terzo luogo, non si è posto alla base della creazione di un sistema capace di autoregolarsi, il cittadino con le sue conoscenze. Quindi l'atteggiamento risulta un vecchio atteggiamento che non ha certamente uno sbocco positivo perché non utilizza l'elemento essenziale della democrazia: non un generico diritto alla parola o alla parità, cui corrisponde di fatto una disuguaglianza (che ha gli stessi caratteri della disuguaglianza) di informazione, in senso cibernetico che oggi noi abbiamo nell'affrontare i problemi del controllo dell'ambiente ma la possibilità di partecipare alle scelte collettive.

Abbiamo già sottolineato la necessità che alla base di un sistema tecnologicamente avanzato vi sia un approccio cibernetico, in senso tecnico, e un approccio cibernetico in senso Wieneriano, cioè capace di utilizzare il feed-back, non solo sotto forma di riscontri oggettivi di danno, ma anche in modo mediato, attraverso la conoscenza e consapevolezza dei cittadini.

In forma schematica, noi pensiamo che un sistema moderno, aggiornato, capace di utilizzare tutte le tecnologie e, in particolare, la tecnologia dei calcolatori debba essere visto in un approccio che si definisce dell'uomo-automa, o meglio di sistemi di uomini che hanno a disposizione gli automi, cioè le macchine di tutti i tipi e in particolare i calcolatori, per usarli come l'uomo usa tutti gli strumenti, da quelli antichi come il bastone, la lancia, la zappa, a quelli moderni come gli occhiali, la penna, la macchina da scrivere, l'automobile, l'aereo.

Come nelle previsioni degli anti-macchinisti nella Repubblica di Erehwon. Oggi i sindaci e gli assessori e i ministri fermano le nostre automobili. Al contrario, sarebbe necessario considerare la possibilità di un sistema basato sui criteri prima indicati: centralità dei cittadini sul piano informativo, partecipativo e categorie di situazioni di rischio per costruire un catasto simile a quello della proprietà fondiaria.

Qualcuno ha scritto che la Rivoluzione Francese ha prodotto, come fatto fondamentale che definiva un nuovo mondo, il catasto della proprietà fondiaria.
Io penso che la costruzione di un catasto delle proprietà nocive delle situazioni produttive e di vita esistenti su ogni territorio concreto, possa rappresentare la pietra miliare di un dominio dell'ambiente in favore delle esigenze degli uomini.
Questo catasto può favorire un modello valido di comunicazione fra i dodici Paesi europei, se si definisce il sistema (le competenze umane, i mezzi tecnici e in particolare i programmi informatizzati) capace di gestire questo catasto.

Il sistema noi lo vediamo rappresentato dall'insieme degli abitanti di ogni Comune, fra i quali viene a svolgere una funzione specifica il Sindaco, come rappresentante del potere che si esprime oggi nel bloccare la circolazione delle macchine e domani si potrà esprimere nel bloccare e nell'imporre delle trasformazioni fondamentali anche all'interno dei processi produttivi, delle caratteristiche della circolazione ecc... Sempre all'interno dei cittadini una particolare funzione va rivalutata in modo determinante ed è quella dei medici, cioè degli operatori che hanno le possibilità e il compito di valutare il danno, che è l'unico indice reale dell'entità del rischio.

La funzione delle organizzazioni sociali in senso lato, cioè di tutte le organizzazioni che esprimono l'attività umana al di fuori dell'attività lavorativa in senso stretto, è quello di modellare le caratteristiche del sistema rappresentato dalle tre figure centrali: cittadino, medico, sindaco.
Questa modellizzazione è stata finora prevalentemente, quasi dappertutto nel mondo che io conosco, rivolta alla regolazione dei rapporti in termini di diritti alla cura e alla prevenzione.

E' tempo che oggi svolga la funzione di modellizzazione di un sistema capace di controllare l'ambiente in funzione della salute degli uomini, attraverso gli uomini stessi.
Un sistema operante non fatto di parole altisonanti, soprattutto fatto di informazioni. In primo luogo, sul sistema stesso e sugli elementi base su cui il sistema si autoregola.

Un ultimo elemento da sottolineare è il gioco, l'insieme delle regole di sviluppo del sistema uomo-ambiente: si gioca essenzialmente sul rinnovamento e sul miglioramento delle leggi a prescindere dalla verifica dei risultati che queste leggi producono. Non si tratta tanto di sostenere questo o quell'approccio giuridico, questa o quella posizione relativa al diritto. Deve risultare assolutamente prioritaria l'informazione sulla nocività reale (e sul suo andamento) nell'ambito di un catasto della nocività delle proprietà fondiarie in rapporto ai loro contenuti d'uso, cioè dell'attività che viene svolta in esse, sia pubbliche che private.

L'esistenza, la disponibilità e l'approntamento di sistemi adeguati a informare veramente su quei dati, garantiscono agli uomini la possibilità di sfruttare a pieno le loro conquiste democratiche in senso tradizionale.

Molti degli strumenti cui ho fatto riferimento sono già in uso altrove, come continuazione del percorso iniziato in Italia negli anni '50 e '60 sia nell'ambito delle fabbriche, che del sindacato, che della comunità scientifica nel suo insieme.

Due aspetti mi paiono degni di considerazione, in rapporto a quanto è stato finora detto. Sono ambedue relativi a quanto sta avvenendo nelle grandi città italiane, nell'ambito del cosiddetto problema della città come fabbrica di veleni e come problema di blocco totale e/o parziale della circolazione dei mezzi di trasporto privati.

Le critiche che sembra si possano fare nei confronti di questa procedura non possono eliminare gli elementi positivi, che sono almeno due e ovviamente hanno a che fare con quanto oggi si può pensare di utilizzare sul piano degli strumenti scientifici, per controllare l'ambiente in funzione della difesa della salute degli uomini.

Il primo elemento positivo è rappresentato dal fatto che certamente la circolazione dei mezzi di trasporto in Italia, come altrove, un problema sinora irrisolto, sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo. Circolare prevalentemente su mezzi privati (del tipo di quelli attuali ovviamente), non è certo il modo più agevole né più economico. Non lo è neanche dal punto di vista della velocità. Rispetto a questo elemento non è certamente una scoperta dire che influisce fortemente sull'inquinamento da monossido di carbonio e di protossido di azoto, il fatto che la circolazione sia tutt'altro che rapida e tutt'altro che fluida. Ma certo molti altri fattori entrano in gioco, tra i quali sicuramente le attività produttive, in particolare quelle industriali, e il riscaldamento.

Pertanto l'intervento sulla circolazione non può che essere salutato come un intervento valido, almeno se è capace di porre il problema della necessità e della possibilità di migliorare la qualità del trasporto e in parte, di conseguenza, la qualità della vita (sottolineando forse i vantaggi complessivi delle soluzioni alternative che non l'eliminazione del rischio da cataboliti).

Il secondo aspetto positivo dell'intervento ci pare debba essere ulteriormente sottolineato, cioè la concezione della città come un sistema che si può autoregolare attraverso dei meccanismi consapevoli. La consapevolezza è la situazione che si vuole produrre e migliorare ed è caratterizzata da indici puntuali, precisi, che non possono essere che i rischi ambientali, identificati come danni e come fattori di rischio. Il sistema che si autoregola per ora è soltanto costituito dall'indice di concentrazione del monossido di carbonio e del protossido di azoto e da un intervento che corrisponde all'uso, da parte dell'autorità comunale, di poteri esistenti vecchi, non nuovi.

Si ritorna al vecchio, ma originale modello della cibernetica di Wiener: l'analogia degli organismi viventi e delle macchine dal punto di vista delle modalità d'uso delle informazioni per il controllo del mantenimento delle proprie funzioni.

Questa analogia, che permetteva a Wiener di paragonare il funzionamento dell'organismo a quello di un frigorifero, è vera anche per un'organizzazione sociale come quella della città.

Rischio e Democrazia = il Tabellone Comunale di Rischio

Ivar Oddone e Alessandra Re

Oggi giorno la parola "rischio" è una parola magica, che sembra aprire tutte le porte che dovranno offrirsi a un mondo costruito a misura d'uomo. Eliminare i rischi è un fatto essenziale. Ma, la lista dei rischi diventa di giorno in giorno più lunga, si deve quindi decidere quali sono i rischi da eliminare per primi, e perché, perché si sono scelti questi i rischi piuttosto che altri. Il numero dei rischi, o meglio gli elementi identificati tali, sono ormai un numero immenso, nel senso matematico del termine, (ossia 10.80.). Risultato: non ci sono più rischi perché tutto è rischio.

LA PAROLA RISCHIO E IL DIZIONARIO

Ma che cosa significa la parola rischio? Dobbiamo cominciare da quello che ci dice il dizionario. Secondo il Piccolo Dizionario Larousse Illustrato (1913) rischio significa: Danno, pericolo, inconveniente "possibile". Il Larousse edizione 1991 conferma la denominazione attribuendone l'etimologia all'italiano antico "risco" (dal latino resecare = tagliare o dal greco “risocon” radice). Al contrario l'italiano Tramater (1829) riporta l'etimologia del termine italiano rischio al francese “risque”, derivato dal celto-bretone "risq" che significa sdrucciolare = “glisser”.
La differenza tra le due parole: rischio e pericolo. Il Tramater sottolinea nel termine rischio il riferimento a un danno "distante", nel termine pericolo un danno "prossimo" vicino. Mentre per Larousse, il rischio è un pericolo "possibile". Nel piccolo Larousse Illustrato una massima interessante, pertinente: "Un dizionario senza esempi è uno scheletro ". Come dire che la definizione o la denominazione non è sufficiente; ci vogliono degli esempi per caratterizzare, connotare, definire concretamente qualunque parola, parlare di rischi significa dunque ricordare le connotazioni salienti del rischio.
A pezzi e bocconi io posso numerare qualcuna di queste connotazio­ni, in termini di condizioni preliminari. In effetti il rischio interessa veramente come idea-guida se, e solamente se, soddisfa minimamente le seguenti condizioni:
  1. definire concretamente il rischio prioritario (o una lista di rischi prioritari;
  2. identificare e verificare i criteri che favoriscono la scelta della priorità;
  3. sapere che il rischio deve sempre essere considerato in rapporto alla prevenzione;
  4. ricordarsi che il sistema della prevenzione deve essere un sistema permanente che bisogna mettere in opera;
  5. identificare un sistema di prevenzione dei rischi prioritari che tutti i cittadini possano "padroneggiare";
  6. rendere esplicito un linguaggio pertinente (in quanto con­tratto linguistico in linguaggi diversi) che tutti devono conoscere e utilizzare a proposito dei rischi;
  7. rendere espliciti i giochi di quelli che sono implicati in situazioni che producono rischi prioritari e che contengono il rischio stesso.
GLI UOMINI E IL RISCHIO NELLA STORIA

Se vogliamo riflettere correttamente sul soggetto "rischio" a partire dagli elementi suddetti, dobbiamo parlare di quello che significa il rischio di malattia e di morte nella storia, e di che cosa significa oggi, non soltanto come parola, ma anche e soprat­tutto nelle sue implicazioni. Il rischio di malattia e di morte (dando particolare importanza all'ambiente esteriore e ai fattori ereditari e all'ambiente interno) è stato considerato in maniera differente nel corso dei diversi periodi STORICI, secondo lo stato della conoscenza scientifica e secondo lo stato del modello storico-culturale di ogni epoca.
In generale io penso alla storia della conoscenza scientifica come a una storia delle nuove scoperte che si aggiungono al patrimonio esistente. Al contrario, secondo l'ipotesi proposta da Kuhn, il processo di sviluppo della conoscenza scientifica avviene in modo discontinuo per mezzo di "rivoluzioni" che cambiano l'ottica, la prospettiva delle scienze. La storia dei modelli di interpretazione delle malattie (e dunque delle situazioni di rischio) è infatti una storia che si sviluppa per stadi successivi in funzio­ne al genere delle malattie prevalenti, dei mezzi disponibili per farvi fronte ma innanzi tutto in funzione dei modelli socio-culturali.
Si può dire che richiamare a modelli scientifici propriamente detti, ai soggetti di controllo della malattia è un affare recen­te. Si deve contemporaneamente distinguere tra i modelli di tutti (i non medici) e i modelli di quelli che hanno nella società la funzione di guaritori, di medici. Io credo si possa dire che in un primo periodo, il lungo periodo di storia che precede il modello clinico, la formazione dell'esperienza sulle malattie e la socia­lizzazione delle conoscenze sono stati due processi paralleli, che coincidono per taluni aspetti. Dall'esperienza dei danni presenta­ti per un morso di serpente o l'ingestione di un frutto, d'una bacca o di una determinata foglia (o della sua eventuale utilità) alla constatazione dell'utilità che se ne ha di proteggersi dalle intemperie, dal freddo o dalle infezioni prodotte per la presenza di escrementi nel luogo dell'abitazione, si può presupporre un lungo processo d'acquisizione di conoscenza e di esperienze dirette, sopratutto a livello di piccoli gruppi.
I gruppi che non hanno socializzato certe esperienze (nel senso dell'acquisirle attivamente) hanno pagato duramente questa mancanza spesso a prezzo della loro scomparsa. Queste acquisizioni, anche grossola­namente comparate alle nostre conoscenze attuali, hanno trovato nella maggioranza degli uomini delle esperienze e in piccoli gruppi una funzione specifica in seno alla comunità (guaritori, maghi.medici) i portatori, il nucleo di aggregazione di questa esperienza e gli agenti di un vasto processo di socializzazione. Quello che è importante sottolineare, è la parte probabilmente importante della partecipazione di tutti alla definizione delle conoscenze da socializzare, almeno per quelle relative alla salute e alla malattia.
Un esempio notevole: la descrizione di un tabulato della malattia dei minatori fatta da Ippocrate circa 25 secoli fa. La dispnea, (difficoltà di respirazione), la costipazione e la rigidità delle ginocchia (i minatori lavoravano in gallerie molto basse) caratte­rizzavano secondo Ippocrate i minatori della Carpazia, regione mineraria della Grecia. Di più, egli rileva che le donne di questa regione si sposavano più volte, certamente perché gli uomini che lavoravano nella miniera morivano piuttosto giovani. Egli si serve sicuramente di risultati dell'osservazione, dell'esperienza di parecchie generazioni in un territorio costante: la regione delle miniere. Una situazione nella quale non importava comparare la vita, la malattia e la morte degli uomini che lavoravano nelle gallerie della miniera a quella delle donne e anche degli uomini che non lavoravano, pur vivendo per il resto nelle stesse condizioni.
In seguito, nel periodo clinico, i modelli non medici rappresenta­ti da una serie di informazioni strutturate, almeno tutte quelle concernenti le grandi malattie (meningite, difterite, polmonite, febbre tifoide, tubercolosi, ecc...) portate alla conoscenza della maggioranza della popolazione. I non medici e i medici avevano in comune il modello delle malattie fondamentali. Il concetto di rischio che ne derivava era patrimonio di tutti e faceva parte della cultura stessa come qualche cosa che non si poteva non conoscere. Ne derivava una situazione che noi possiamo immaginare: i rischi concreti erano la morte e le malattie fondamentali conosciute da tutti. Se c'era una alterazione dello stato di benessere si considerava la sofferenza come un segno da inter­pretare. Se i segni rassomigliavano al quadro di una malattia considerata come grave (l'insieme di queste malattie era presente nella mente di ognuno per esperienza diretta o trasmessa), si chiamava il medico, se si avevano i mezzi. Di qui ne deriva l'uti­lizzazione corretta del sapere medico per povero che fosse. Il medico utilizzava allora la conoscenza della scienza medica in una forma quasi massimale, perché esse erano integrate in un sistema d'informazione che il medico partecipava gli uomini che chiedevano il suo intervento.

IL RISCHIO OGGI

Per quel che concerne il modello conosciuto, bisogna sottolineare la difficoltà attuale di acquisire modelli di malattia che garan­tiscono un uso corretto dei considerevoli mezzi che abbiamo oggi a disposizione. Il confronto tra il dato medico e il dato dell'espe­rienza empirica è improbabile, quando si rapporta a una grande quantità di linguaggi, spesso non omogenei tra loro, dei diversi rami della specializzazione. Bisogna aggiungere la difficoltà, della impossibilità di risalire a una sintesi verificata a partire dai molteplici indici di laboratorio o derivati di esami per i quali si utilizzano vari strumenti. Da ciò deriva l'insicurezza delle generazioni attuali nei comportamenti di fronte al rischio, ma anche di fronte all'acquisizione di regole di vita che po­trebbero allontanare un certo numero di rischi.
Un tempo l'adozione di comportamenti molto utili di fronte ad alcuni tipi di rischi, si esprimeva anche sotto forma di superstizione. Per esempio, la comparsa di tumori benigni superfi­ciali nei neonati (che si chiamano “angiomi” nel linguaggio scienti­fico e si chiamano macchie di vino o voglie nel linguaggio popola­re, è attribuito al fatto che la madre non aveva potuto soddisfare durante la gravidanza certi desideri alimentari. Da cui il nome di voglie (di vino, di caffè o di fragole, secondo il colore) dato a questi angiomi cutanei. E' certo che queste superstizioni agiscono contro il rischio di sotto-alimentazione delle donna incinta, perché creano per la donna nella famiglia, una priorità dal punto di vista alimentare.
L'organizzazione del sapere comune che sotto intende al linguaggio di tutti noi è oggi un fatto mediatico, assai poco controllato dagli scientifici. A partire dal momento in cui la comunicazione deve stabilirsi all'interno di un linguaggio (o più linguaggi) tecnico-scentifici e un linguaggio comune, una integrazione valida deve essere necessariamente decimale, ossia costruita in forma arborea. Il tronco (il rischio in generale), il primo ordine di rami deve essere comune al linguaggio scientifico e ai linguaggi utilizzati per disegnare classi di situazioni di rischio. Lo sviluppo del linguaggio scientifico può allora articolarsi fino al dettaglio più sofisticato, il più esoterico. Una integrazione valida non ci pone soltanto il problema di comunicazione della conoscenza e lo scambio all'interno del linguaggio tra specialisti e il linguaggio di portatori di pratica sociale. Essa pone sopra­tutto il problema di una azione in comune, d'una integrazione di piano tra i due, che non si può confezionare come un esperanto ma che dobbiamo costruire come un contratto linguistico esplicito. Si potrà immaginare, inventare un racconto su quello che il rischio ha significato nella storia dell'uomo.
  1. Quindi: L'esperienza immediata del danno, il pericolo dopo.
  2. Dopo: la memoria del pericolo di danno. Dunque, una rappre­sentazione di una situazione di pericolo e di una risposta sotto forma di azione per difendersi.
  3. Dopo ancora: parecchie memorie legate alla stessa situazione di pericolo e diversi tipi di risposta, affidati alla memoria personale e al contesto della memoria di altri esseri umani.
  4. La rappresentazione del rischio si raddoppia via via nella misura in cui la risposta diventa più ricca, dunque più complessa. Al danno in se stesso, si aggiunge (almeno dal punto di vista del soggetto) il rischio di rispondere in modo inadeguato. E sufficiente pensare al rischio di essere morsi da una vipera: il pericolo da considerare è l'effetto del veleno, ma anche quello di un siero; bisogna muoversi presto per arrivare all'ospedale o è meglio muoversi lentamente per evitare di mettere in circolazione il veleno?
  5. Stessa cosa quando il rischio rimane lo stesso (ma questo non è vero del tutto) le possibilità di rispondere diversamente si moltiplicano perché la conoscenza delle differenti situa­zioni possibili aumentano. La certezza di una risposta adeguata si modifica spesso in proporzione inversa alle conoscenze.
  6. Dal punto di vista della rappresentazione cognitiva, il danno primario diviene il sotto-insieme del danno globale, in un campo psicologico che comprende sia la paura del danno sia la paura di non saper scegliere una risposta efficace. Tutti i giorni, la conoscenza di nuove possibilità aumenta la diffi­coltà di scegliere, dal punto di vista generale e ancora di più da un punto di vista completo, nella situazione.
  7. L'acquisizione di una dimensione sovra-individuale di rischio si può produrre attraverso una dicotomia. Da un lato il problema della dialettica dentro i modelli tecnico-scientifici e i modelli empirici si pone molto spesso in modo anarcronistico. La soluzione sarà: la delega della soluzione ai "sapienti". Agli uomini politici, il compito di reperire le risorse. Agli altri, la valutazione a posteriori, molto spesso negativa sull'ambiente di vita, senza che le scelte tecniche siano messe in discussione.

La ricerca di una dimensione sovra-individuale di rischio può così produrre un sistema complesso di priorità sotto forma di scelte collettive dei rischi più gravi o più frequenti, selezionati tra quelli che non si possono padroneggiare.

UNA REALIZZAZIONE SPERIMENTALE

A partire dalla fine degli anni '70 ho avuto l'opportunità di lavorare con i mutualisti di Bouches-du-Rhone (Mutuelles de France) per realizzare un progetto e in seguito di un sistema di prevenzione. Delle cose che ho appreso ce ne è una che voglio ricordare qui: si tratta del fatto che il problema di padroneg­giare i rischi per la salute può avere delle soluzioni concrete e differenti in rapporto alle forme di democrazia che caratterizzano il paese nel quale si lavora per controllare questi rischi. L'identificazione dei rischi si definisce tanto nelle scelte di rischi prioritari e tanto nel tipo di sistema di prevenzione. Sopratutto, in quanto la capacità di utilizzazione dell'esperienza fatta sul terreno della prevenzione, via via e in misura che la forma di democrazia permette questo processo, o qualche volta lo rafforza.
In Italia e in Inghilterra, per esempio l'organizzazione della democrazia esclude le forme locali di organizzazione della salute, dato che esiste una organizzazione nazionale che determina il tipo di organizzazione della salute in tutti i suoi aspetti, su tutto il territorio nazionale.
In Francia al contrario, l'inter­vento dello stato lascia una certa libertà di sviluppo dell’organizzazione della salute sotto forme locali secondo l'iniziativa della Mutue!le o della Maire (di tutti i cittadini). I risultati: le Unità Sanitarie Locali italiane sono dappertutto le stesse; in Francia ci sono delle differenze notevoli tra i diffe­renti comuni, in rapporto alle iniziative locali delle organizza­zioni sociali che utilizzano queste possibilità per meglio adatta­re l'organizzazione sanitaria alle esigenze del territorio. In realtà i rischi non sono gli stessi in tutte le Maires. Non si tratta solamente di fatti concreti, legati alla geografia fisica o economica (zone sismiche o no, industrializzate o no) ma si tratta sopratutto della maniera con cui i cittadini della zona si pongono il problema del rischio, dunque producendo modelli di azione in rapporto ai danni che minacciano la salute. Su questa base, le organizzazioni sociali modellano l'organizzazione della risposta ai rischi.

UNA NUOVA CONCEZIONE DI RISCHIO

Secondo noi è molto importante distinguere tra rischio DA e rischio PER. Il rischio DA è il danno stesso, il pericolo concreto che dobbiamo evitare. Per esempio: rischio da silicosi, di bron­chite cronica, di tumore. Il rischio DA è caratterizzato dal fatto di essere posizionato nell'uomo o quanto meno nell'essere vivente.
I rischi PER: tutte le situazioni che favoriscono il rischio DA e aumento della probabilità di rischio DA si trasformano in offesa. Il livello di specificazione nel quale si considera la situazione di rischio sono talmente numerose che è realmente difficile ricordarsi che, in fondo, esiste un rischio DA. I rischi DA misurano il rischio reale e rappresentano il domani dell'esperienza medica. I rischi PER misurano tutte le situazioni che favori­scono il rischio DA. Essi rappresentano gli elementi sulla cui base i cittadini si formano una carta, una mappa dei rischi del territorio.

Il riferimento teorico è Wiener, l'inventore della cibernetica. Negli ambienti scientifici, si considera, a buona ragione, come il padre del sistema che ci ha permesso le grandi avventure nello spazio. E' anche l'autore di "L'impiego umano degli esseri umani" (introduzione alla cibernetica) dove scrive nel 1950: "è molto più facile organizzare una impresa che utilizzi un milionesimo delle facoltà cerebrali dei propri impiegati, che impegnarsi a costruire una società nella quale gli uomini possano esprimere tutta la loro potenzialità". Ci si può domandare se si potrà superare questa sotto utilizzazione di capacità intellettuali dei cittadini esattamente a proposito del controllo dei rischi esistenti nel circondario. A tutt'oggi, abbiamo a nostra disposizione per "l'impiego umano di essere umani" non soltanto la tecnologia più sofisticata, non soltanto tutta una serie di esperti e di esperte, ma soprattutto un mezzo: la democrazia, che è sicuramente capace di dare allo sviluppo tecnologico finalità valide. Il rischio è dunque un fatto di democrazia in tutte le sue forme. Una democra­zia che può permetterci di integrare a un livello superiore, coerente con le esigenze dei tempi, i modelli di rischio di tutti i cittadini con i modelli scientifici.

Il sistema di cui abbiamo bisogno: una mappa dei rischi prioritari al centro di un sistema di partecipazione. Una rappresentazione dello stato delle cose come referenza tra comuni e popolazione, i medici, gli eletti come attori di una evoluzione continua del progresso, di fronte alla lotta per un contesto umano.

Su questo pannello (mappa):

  1. il nome del comune;
  2. la lista dei rischi prioritari;
  3. la localizzazione di questi rischi sul territorio;
  4. quanto dei danni previsti (legati agli altri rischi selezionati) si possono stimare;
  5. quanti dei soggetti colpiti, l'organizzazione sanitaria nel suo insieme è stata capace di definire. Questo quadro può essere al centro di una battaglia contro i rischi, una risposta adeguata almeno nel senso di un tentativo concreto di coniugare strettamente democrazia e scienza come elementi complementari.

Questo quadro può costituire la base e la sintesi di un catasto della salute dipartimentale. Il catasto fondiario è stato un punto di forza della Rivoluzione Francese. Il catasto comunale dei rischi potrà avere un ruolo importante nella lotta contro i rischi all'interno del dipartimento. Nel processo di controllo del dipartimento, il quadro dei rischi è un po' come a una "rotonda" o una piazza rispetto ai semafori della segnaletica stradale nella circolazione automobilistica. Assolutamente chiaro in relazione al comportamento che si domanda ad ognuno; una sola condizione da rispettare per operare correttamente: il rispetto della regola della priorità.

Una regola di condotta tra uomini, che non richie­de consumo di energia, ne elaborazione di segni, ne sviluppo di tecnologie. Questa regola non è in contraddizione con lo sviluppo tecnico scientifico, al contrario, permette di utilizzare al meglio, gli altri strumenti, la tecnologia informatica. La qualità fondamentale dell'informazione resta quella di essere figlia della cibernetica, ossia della scienza del timoniere, di colui che prima di tutto si pone il problema del suo scopo, per verificare, dopo, la validità dei mezzi scelti.

A che cosa serve una buona accumulazione di informazioni se non si è in condizione di utilizzarle per il fatto che il loro numero è eccessivo? Su questo terreno io ho appreso non poche cose che però non è possibile descrivere qui, ma che si possono vedere a Martigues e a Port de Bouc, se si vuole conoscere il rischio nel suo significato globale. Una risposta in termini di progetto e di realizzazione.

BIBLIOGRAFIA

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I. ODDONE, A. Re, G. Briante, Riscoprire 1'esperienza operaia, Edition Sociales, Paris 1982.
I. ODDONE Medicina preventiva e partecipazione, Editrice Sindacale Italiana
A. RE Psicologi a e soggetto esperto. La trasmissione della competenza professionale, Editrice Tirrenia Stampatori, Torino,1990
Y. SCHAWARZ Esperienza e conoscenza del lavoro, Editions Sociales, Paris 1988
N. WEINER The Human Use of Human Beings, Houghton Missin Company, 1950